“Tuberi” di Gaetano Altopiano

Questa mania di chiudermi nell’autocommiserazione mi ha reso più pericoloso di quanto pensassi. Sarebbe meglio dire ingiusto, o intransigente, o, magari, addirittura “crudele con me stesso”, volendo dare a ogni cosa il nome adeguato e esser precisi. Ma “pericoloso”, per quanto sciocco e inutile come aggettivo (è solo una pre-qualifica), nel caso devo riconoscerlo appropriatissimo. E’ quello che più si avvicina al concetto di “cattivo”. Parola che non avrei voluto nominare. Al posto di pronto soccorso, dove stanotte i miei mi hanno portato d’urgenza, questa parola mi ha dato la nausea, tanto spingeva forte per uscire: ferite da taglio, emorragia, attaccatura del polso e avambraccio sinistro. Lei, l’infermiera, cercava di essere gentile in tutti i modi, fingendo persino di non sentire gli insulti. Era meglio non si immischiasse: mi era odiosa senza che ne avessi motivo, anzi. Più riconoscevo la mia imbecillità, più sentivo il bisogno di offenderla. Al punto che la donna esplose e rivolgendosi al medico disse che ne aveva abbastanza. Mentre io, finalmente, sentivo le palpebre più pesanti, e il braccio farmi un po’ meno male. ”Benedetto il fuoco della mia inferiorità” pensavo concentrandomi. E a mio padre, al suo difetto fisico. E a mazzi di Begonie, tra i miei tuberi preferiti. 

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