GLEEN GOULD di Francesco Gambaro

A un certo punto della notte telefoni. Vorresti essere telefonato. Telefoni per illuderti di precedere una telefonata. Per capire come stanno le persone che non ti telefonano. Non soffri di solitudine, ma della paura che gli altri che non ti hanno telefonato stiano cambiando. Picchi sui tasti, ti alzi, resti alzato, ripicchi sui tasti, vai, vieni, poi afferri la cornetta e telefoni. Sei ormai un investigatore. Non un interecettatore. Ascolti i toni delle voci, le pause, le sorprese, il gemito di un proditorio risveglio, capisci. Cosa capisci? Che non sei più quello di ieri notte e scopri che anche chi ti risponde non non è più lo stesso. Questa percezione non ti toglie il piacere di ascoltare un’altra voce, del congiungimento sonoro tra la tua voce, che riconosci anche se ha smesso di gorgheggiare ed è tornata a emettere parole, e la loro che, invece, scambiano la tua chiedendoti chi é. Sei loro. Quelli che vogliono capire come stai. Se ti sei bevuto il cervello, se hai un cancro alla prostata, se sei finalmente riuscito a storpiare in modo perfetto l’ultima partita di Bach. Perché telefoni? Perché guardarsi negli occhi è semplice come grattarsi la testa. Ma sentire le voci, ricostruire un volto, una espressione, un corpo attraverso l’orecchio, direttamente in testa, immaginarsi l’altro nel momento in cui lo chiami, nel suo momento, non è semplice, è un trip psichedelico. Telefoni per sapere se sei ancora quello che sei. Chiedi chi è stato l’ultimo a tradirti, a non reggerti. Sospiri, torni a gorgheggiare, vai vieni a passi più veloci, torni alla cornetta, a un altro numero. Telefoni per sapere come stai.

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