Come qualificare il dolore fisico, un estraneo o uno di famiglia? Considerando che un dolore fine a se stesso non avrebbe alcun senso, sarà vero che il suo scopo è esclusivamente quello di mandare un messaggio al cervello notificando l’“allarme di insulto ricevuto” in modo che si corra ai ripari ai fini della sopravvivenza. Dunque è senz’altro uno di famiglia. A cui però si rimprovera di avere scelto il metodo meno adatto per comunicare, tanto da essere trattato con disprezzo perché scompaia prima possibile. Erbe, infusi, antidolorifici, cortisonici, droghe. Tutto quanto sia utile a lenire, se non proprio a occultare, l’allarme ricevuto viene al più presto divorato. E da sempre. Possibile allora che in migliaia di anni di evoluzione il corpo non abbia messo a punto un sistema meno primitivo? E’ probabile che il problema sia stato valutato ma che il dolore sia rimasto l’unica via d’uscita, l’unico modo per ricondurre alla ragione senza mezzi termini laddove bisogna prontamente intervenire. In fondo, è in gioco la continuazione della specie. Immaginiamo il corpo del signor x che, a causa di un’infezione che non riesca a debellare, comunichi al medesimo signore la necessità di intervenire, piuttosto che col dolore, tramite segnali chimici inequivocabili ma al tempo stesso diplomatici. Un sistema dialettico, insomma. E’ chiaro che il messaggio del mittente, nell’ipotesi, privo della sua peculiarità (è un ordine) subirebbe un’interpretazione “personale” da parte di ogni destinatario e in termini che demanderebbero soltanto alla sua ragionevolezza le decisioni finali. Il destinatario potrebbe provvedere subito, oppure no, o addirittura non provvedere del tutto.
L’ESTRANEA 4 (dolore e dolorabilità) di Gaetano Altopiano
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