(L’OCCHIAIA. 25.) di Elio Coniglio

   Se ne sta seduta di fronte a me a braccia conserte e mi guarda. L’azzurro nuvolo dei suoi occhi mi trova a luna di lume davanti alla mia Olivetti, intento a tentare, con l’ottusa caparbietà di chi non vuole rassegnarsi, il tasto della T – lettera che mi manca oramai da diverse settimane -, ma certo non indifferente ai provocanti profumi serotini che sprigiona la sua pelle. Si alza di scatto, afferra i cuscini, li scaraventa verso gli angoli della stanza  poi si lascia cadere a peso morto tra le nude molle del divanetto bluoltremare sprofondandovi  con  le natiche burrose, più e più volte, e mentre lo fa, rompe il suo ostinato silenzio farfugliando delle parole che, forse perché male imparentate tra loro, non capisco. Le sono accanto. Le sussurro qualcosa che la calma all’istante e nel frattempo le accarezzo con indolente intimità i fianchi. Visibilmente stanca, la polvere dorata che  ci aureola si posa ricoprendo  ogni cosa. Indisturbati, schivi lanicci brunastri si muovono furtivi sul pavimento…

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