STORIE DEL SIGNOR JFK (46) di Francesco Gambaro


Sente la pelle sotto la doccia intenerirsi. Un po’ scollarsi. Un po’ coniglio scuoiato da una raspa. Attento a non leccare le ferite insaponate, si raccomanda JFK. La carne viva fa la sua strada. Sprizza e si mescola, fuori dal gettito, alla pelosa garzabambagia. Per vanità JFK non esce dal bagno, non si fa guardare, si osserva allo speculo e non gioisce. Alla vista, i bruciori infiammano le campane pendule che rintoccano impietose. Rivolgiti a qualcuno, si consiglia JFK, perdio! Ma qualcuno non c’è, in più non sa cosa fare. In più è spaventato dalla presunzione della sua sussistenza. Non sei tu che devi essere soccorso, né chi ti ha ridotto così, piange JFK. Perde adesso un osso, due adesso gli ossi. Da destra il perone, da sinistra tibia e perone, tre quattro, una rotula investita d’aria, indecisa se lanciarsi nel vuoto. Che facciano quello che vogliono. Con dolore, senza paura, primattore della scena. Si allontana dallo speculo, in realtà gli gira intorno. JFK lascia che JFK fugga lasciando in terra pezze e attrezzi del mestiere. L’inganno non rassicura JFK. Non si insegue e non ritorna allo speculo. Si nega il piacere di rivedersi sano anziché a brandelli. Si abbandona sulla ciambella della tavolozza. Stupisce che sia ancora lì.

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UMIDA VENA
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