Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano calvadòs. (I fiori blu, 1965)
Una domenica d’inverno, al crepuscolo, un uomo che si sentiva straniero senza però esserlo arrivò con un rapido, dal nord, alla stazione di Roma. Già dal treno, col primo apparire della città e delle sue enormi case come innescate sui colli rognosi di rifiuti e di untume e poi quelle pietre dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgevano ciuffi d’erba e alberelli, vide il cielo color violetta e tirato come una seta dall’aria quieta e fredda della tramontana. Sentì, come sempre quando arrivava, la mortale presenza dei secoli e della storia. Uscì dalla stazione per prendere un tassì e, a mano a mano che che il crepuscolo si trasformava lenissimamente in sera, si trovò sul piazzale. La luce del cielo si fondeva con quella del grande faro centrale ed era qua e là spezzata di riverberi di neon rosa e azzurro. Sotto questa luce nelle aiuole della stazione stavano accovacciati sull’erba bruciata dai turni di umanità sempre distesa, gruppi di donne africane vestite di bianco che chiaccheravano la loro lingua con movimenti continui delle mani scure e magre con unghie laccate di uno smalto color metallo. (Sillabari, 1997)