Le industrie alimentari producono premeditatamente più cibo di quanto ne occorra. Si stima che piuttosto che produrne per sette miliardi di persone (è solo un’ipotesi) ne producano quasi per ventuno miliardi. Si favoleggia che questo sia conseguenza dell’impossibilità di coordinamento con i ministeri nazionali competenti e gli istituti di statistica, e che le industrie abbiano un loro ciclo produttivo inarrestabile. Ma tutti sanno che non è così. Tutti sanno che questo “surplus” produttivo è perpetrato con un obiettivo preciso: è destinato a tutte quelle aree geografiche dove sarà comprato. Anche se mai effettivamente consumato. Il principio si chiama “iperproduzione programmata”. Guardando all’iperproduzione programmata è legittimo che qualcuno se ne domandi il motivo. Oltre che in termini di spreco, ma anche in termini di perdite da un possibile invenduto, perché produrre più di quanto occorre sapendo che un solo prodotto su tre sarà realmente utilizzato? La risposta è già nota. Sappiamo tutti che comprare una scatola di piselli e consumarla non è direttamente proporzionale. Ossia. Sappiamo tutti che la facilità con cui ormai possiamo ottenerla ha generato un legame solo apparente tra il suo acquisto e il concreto utilizzo. E questo per l’inarrestabile svalutazione dei significati nella società occidentale – in questo caso, cibo e sacrificio. Il cibo non ha più il suo “spirito” nutritivo e non è più una “fonte di sostentamento” per la quale sacrificarsi. Acquistarlo (procurarlo) non è più un’azione per la quale si era disposti a rischiare la vita, mirata a un approvvigionamento preciso, necessario e programmato, ma un’azione slegata dal suo antico significato: non ha più niente a che vedere con la caccia.
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