Desiderio, che vocabolo corrivo. Dal latino de-sidera(dalle stelle): una parola che cade giù dagli astri, il desiderio. Forse custodisce al suo interno, questa parola, un’allusione all’apertura verso l’infinito che nasce dalla visione del firmamento. Sì, perché desiderio e infinito sono parenti strettissimi.
Immagino un diamante gigantesco dalle mille facce luccicanti nel buio. Grosso come una noce di cocco. Non può esistere una cosa così, ma io vorrei che esistesse. Anzi, non mi basta. Già che ci sono, immagino un diamante grosso come una mongolfiera e comincio a desiderarlo. Immaginazione e desiderio si danno la mano e ci spingono verso i territori franosi del senza confine. Il desiderio si pone negli umani come un orizzonte illimitato e irraggiungibile. Ma gli umani, pur essendo miseramente limitati e finiti, tendono a un piacere estendibile all’infinito (come sosteneva già Leopardi, pensatore del disincanto, ma poeta sempre desiderante). E questa specie di meccanismo inceppato o sbaglio di natura, determina in varia misura la condizione di infelicità obbligatoria alla quale tutti sembriamo condannati (variabile, la misura, in base al livello di consapevolezza, oltre che di sfiga). Il desiderio dunque è ciò che rende disumano l’umano, è un’aquila inaddomesticabile, il cosmodromo (scassato) dal quale vorremmo decollare per una gita verso l’illimitato (che però a noi umani non è dato neppure sfiorare). Il desiderio è una forma di sfida, per questo viene considerato peccaminoso, anche quando esula dalla sfera strettamente sessuale. A patto che. A patto che non c’entri la merce. Allora le cose cambiano. Se i tuoi desideri si proiettano disciplinatamente sugli oggetti di consumo, tutto diventa lecito. Vuoi acquistare? Desideri qualcosa che “esiste” in quanto presente nel mercato, ma non hai soldi a sufficienza e perciò ti sembra irraggiungibile? Tranquillo, il tuo desiderio diventa di colpo accettabile. Non hai soldi? E che ti frega? Basta un piccolo mutuo.