Se mi dessero la possibilità di parlare direi che non c’entro.
Io non lo volevo fare, è stata lei.
Ogni volta sempre con lo stesso sorriso, ciao Antonio, come va?
Glielo diceva la mia voce piano, glielo diceva, non dirlo con questo sorriso, ogni giorno, tutti i giorni, alla stessa ora con lo stesso sorriso e la stessa voce di serpente, ciao Antonio come va?
Striscia la sua voce e mi fa paura. Come le voci della notte, quelle dentro al televisore che mi chiamano e sorridono, ciao Antonio come va? Vieni Antonio. E sono uno, due, tre, quattro, cinque, dieci, quindici, cento, mille e non le posso acchiappare. Ché se le acchiappassi potrei difendermi. Ma quelle voci orrende fuggono e non si fanno acchiappare. Vieni Antonio, mi fanno impazzire e ridono. Ridono come lei e come mia madre prima che si affacciasse dal balcone con i sandali rossi troppo alti. Mamma ho paura, non devi sporgerti così con questi sandali rossi coi tacchi troppo alti. Prima o poi ti butti mammina mia, prima o poi perdi l’equilibrio e cadi dal balcone mammina mia. Se n’è fottuta. Ha smesso di sorridere quando è caduta giù dal quinto piano. No non sorrideva più, solo spaventata. Poi se la sono portata via e non l’ho più vista. L’ho rivista in fotografia quando mio padre mi portava a trovarla al cimitero, dove ci mettono tutti quelli come lei. Lui mi diceva, saluta la mamma, ma io non ne avevo voglia, lo sapevo che là non c’era. L’avevano buttata nel sacco nero della spazzatura, quello grande dove ci mettono la segatura. C’è finita dentro con la sua faccia sfatta, molle come una seppia morta. Era così quando è caduta. E tutti a dire, dov’è Antonio, Antonio non la deve vedere in questo stato, non la deve vedere. Portate via Antonio. Però al cimitero mi ci hanno portato, là in quello vicino al mare dove ci sta anche mio nonno. Lei me lo diceva, andiamo a trovare il nonno. Mi sembrava scema quando me lo diceva, perché mi chiedo sempre, ché si vanno a trovare i morti se non ci puoi parlare e non li puoi vedere. Lei però ci parlava e mi diceva, dillo il padre nostro a tuo nonno che se glielo dici lui ti protegge. Faceva meglio a dirlo lei il padre nostro invece di parlargli, così dal balcone non sarebbe caduta . Poi è venuta quella lì con la voce di serpente fino a che non ce l’ho fatta più e gliel’ho detto che in quel modo non mi doveva parlare e che almeno le scarpe se le poteva cambiare, che mia madre con quelle scarpe aveva fatto una brutta fine. Dal balcone era caduta per colpa di quelle scarpe rosse coi tacchi alti. Ma la deficiente, anche lei come mia madre, come tutte quelle con le scarpe rosse coi tacchi alti, pare che non senta e torna a parlarmi con quella voce di serpente. Allora ho detto basta, che non se ne poteva più con questa storia di vedere facce sfatte spiaccicate a terra. E allora lo faccio per salvare lei e anche un po’ per me.
Le dò un pugno nello stomaco e lei si piega e poi non so perché mi guarda strano col sangue che le cola dal naso. Ma io la faccia non gliel’ho toccata e poi non ricordo altro. Poi siete venuti voi, ma lei non c’era più e neppure la sua voce di serpente. Non ricordo nemmeno dove l’ho lasciata . Poi sono arrivati anche quegli altri, quelli con le palette in mano e il cappello bianco che sembravano il vigile urbano che si mette alla rotonda quando c’è traffico solo che io mi trovavo in questa stanza e spazio per le macchine non ce n’era.
Continuavano a farmi domande e a trattarmi come fossi uno scemo e poi ho capito che cercavano lei, quella con la voce di serpente. Mi hanno pure chiesto se l’avevo ammazzata, ma io a dire il vero non ricordo niente solo che avrei voluto che stesse zitta e dopo che le ho dato un pugno lei forse se n’è andata. Dico forse perché poi non ricordo più niente. Ma a loro il mio forse non interessa, loro vogliono sapere cose che non posso dire perché non le so.
E ci provano, ci provano da quando mi hanno portato in questa stanza che mi piace perché è una stanza vuota, solo il tavolo e il letto e la finestra, poi niente, niente di niente. Niente quadri appesi alle pareti che la notte mi vengono a chiamare, niente sveglia che mi salta addosso tutte le volte che le voci non si fanno più sentire. Insomma niente tv e niente di niente. Solo la voce della luna. È morbida, morbida e dolce non come lo zucchero, come il miele che sa un po’ di amaro. Parliamo di quando le voci orrende mi venivano a cercare, ma ora c’è lei e nessuno può più entrare.
L’altra sera è venuto a trovarmi un uomo e mi ha chiesto se mi era venuto in mente qualcosa della donna serpente e io gli ho detto che la donna serpente per quanto mi riguarda potrebbe essere anche morta, ormai non mi da più fastidio. Che la cercassero da qualche altra parte, qui non ci poteva entrare.
Lui mi ha guardato strano poi mi ha detto, tu sei un figlio di puttana, un pezzo di merda che vuole farla franca, ma ci penso io a te. E lì aveva ragione, mia madre era proprio una puttana che si era buttata con le scarpe rosse e i tacchi alti. Mi ha preso per un braccio e mi ha portato in un’altra stanza, ma non da solo, si è fatto accompagnare da un tipo con un camice bianco che non avevo mai visto prima e mi hanno infilato dentro un affare che sembrava la canna di una pistola gigantesca. Non mi piaceva quel posto allora ho cominciato a contare come quando le voci venivano ad una ad una e diventavano cinque, sei, quindici, dieci, ventimila, e ho sentito che mi mettevano qualcosa dentro al braccio, ma non mi potevo muovere. Avrei voluto dire qualcosa, chiedergli cosa mi stavano facendo, ma non lo potevo fare perché prima di ogni cosa dovevo contare e poi non so più niente.
Oggi c’è una zolletta di zucchero che galleggia sull’acqua salata da un tempo che è troppo perché stia ancora lì a galleggiare senza che sia successo nulla. Mi chiedo se zucchero e sale siano compatibili se zucchero e sale possano formare un composto con un nome nuovo. Forse no, visto che la zolletta di zucchero si ostina a galleggiare senza concedersi di un millesimo di molecola, che dico di molecola, di atomo, all’acqua salata. Forse qualche impercettibile scambio avviene tra il cubo di zucchero e l’acqua salata, ma in un tempo così infinitesimale e in una dimensione così microscopica da non essere percepibile da occhio umano.
Lo so i miei pensieri non sono più quelli di una volta, non sono più tanto intelligenti. Ma i pensieri non li vede nessuno, posso farne quanti ne voglio stupidi e insensati, inutili e ridicoli, nessuno se ne accorge, l’importante è non parlare, non agire, perché altrimenti tutto diventa difficile. Fare, parlare diventano di tutti e se voglio essere all’altezza devo adottare strategie adeguate per non farmi cogliere in tutta la mia stupidità.
Insomma sto zitto da quando ho capito che parlare mi complica la vita e da quando sto zitto mi hanno portato in una nuova stanza, forse in una nuova casa diversa da quella di prima che cominciassi a pensare in questo modo stupido. Qui tutto è bianco come la zolletta di zucchero che galleggia sull’acqua salata. Parlavo solo con una donna che veniva a trovarmi tutti i pomeriggi alla stessa ora, credo alle 17, poi non è più venuta. Dicono per colpa mia, ma io non ci credo. Adesso viene un uomo, con lui però non parlo. Mi fa vedere delle figure quasi sempre rosse, come se non lo sapessi che il rosso c’entra con la donna dalla voce di serpente. Credono sia pazzo e io glielo lascio credere, tanto in questo posto ci sto bene, così pulito e bianco e senza voci che la notte mi vengono a cercare. Solo la voce della luna, solo quella la notte mi fa compagnia. Lei mi racconta delle sue giornate quando credo non ci sia e invece sta là e vede tutto mimetizzata nella luce del giorno. Le sue giornate sono storie bellissime che se potessi uscirei da qui per raccontarle, fregandomene che la gente possa pensare che faccio discorsi stupidi che mi fanno sentire un altro da com’ero prima. Però non tanto diverso, perché la luna continua a parlarmi, quindi mi riconosce.
*The blind Mr. Frazer, di Rebecca Horn (part.)