A corto di fiato e ormai, ahinoi!, in vistoso ritardo, io e Francesco giungiamo davanti casa di Tà proprio mentre Tà, in ghingheri, distoglie lo sguardo contrariato dalle lancette dell’orologio e salta sul comodo sedile del taxi che, diverse vie più tardi, ci lascia a Villa***. Subito appena sceso dall’auto, Tà, scattoso e caparbio quanto una folata di vento, s’intrufola fra la tumultuosa folla di bellimbusti e dame altezzose che, trattenuti a stento da nerboruti lacchè, s’accalcano all’entrata, zigzaga fino al portone d’ingresso già aperto, lascia i libri che ha sottobraccio su di alcune valigie ben nascoste dietro una delle tante colonne tronche che ne affiancano gli stipiti ed entra, seguito a ruota da Francesco e da me bloccato sulla soglia da Qualcuno che, con ruvida cortesia, mi intima di consegnargli – ‘Onde evitare spiacevoli complicazioni’ – lo spadino pencolante dal mio fianco imbelle. Evito le ‘complicazioni’, glielo affido, a malincuore. Lui lo afferra per l’elsa con due dita schive benché biancoguantate, se lo accosta vicino al petto, poi si allontana, puntando dritto verso la porta in fondo all’atrio popoloso di maschere ghignanti… A fare giorno dentro il salone privo di finestre che si allarga davanti ai nostri occhi manomano che i due battenti si dischiudono, sono due lampadari giganteschi , da cui una luce giallognola, tentacolare, onnivora, ruscella ininterrottamente sui commensali seduti attorno ai tavoli disposti girogiro alle pareti coperte di arazzi, affreschi e, soprattutto, specchi, grandi specchi che giocano tra loro… Prendo posto tra Tà e una linguacciuta signora seduta a capotavola a cui risulto essere, lo avverto sulla pelle, particolarmente antipatico: quando non occhieggia dentro il mio piatto ancora stracolmo di quelle stesse grosse e larghe fette di salame che tutti, compresa lei, stanno, e con quale avidità, ingurgitando, spettegola a ruota libera sul mio abbiglio ‘… non adatto alla circostanza! ‘. Ad un certo punto, Tà, si alza, trotterella verso l’atrio, sussurra qualcosa dentro l’orecchio di Qualcuno poi s’infila in una scala che scende… Amplificato dall’assordante silenzio provocato dal progressivo abbassamento dell’intensità luminosa, in tutta la sala si sente un fru fru di stoffe all’istante svilito da un levigato acciottolio di nacchere a cui si affratella un panico tacchettio e una voce, nasale, invitante… Francesco , tra pochi fortunati scelti a caso e più volte chiamati dalla talentuosa danzatrice, non si fa pregare: fulmineo, scende in pista a ballare ma, tra una piroetta e l’altra, scompare… “ Ma perché costei non balla in italiano?” strombazza a destra e a manca la mia vicina di gomito, la strega a capotavola, in cerca di plausi che rafforzino questo suo improvvisato, insincero sdegno patriottico. “ Che balli nella lingua che più le garba! ” le urlo in faccia di rimando, soffocando sul nascere ogni sua altra pretestuosa insolenza. Grata per questo inaspettato slancio protettivo, la bella baiadera ricambia ogni mio sorriso e fa turbinare l’accogliente bacino, alludendo… Di continuo, sulle nostre labbra sbocciano baci, volano… Tà e Francesco ricompaiono nei pressi della scaletta, mi fanno cenni: bisogna andare! Usciamo dalla villa, alla chetichella. Tà ha di nuovo sottobraccio i suoi libri, io, alla cinta, il mio spadino. Francesco ci segue tirandosi dietro con un laccio una carovana di valigie marroni…
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