LE BUSTE

Per lungo tempo, dopo la sua morte, avevo continuato a ricevere lettere da un mio amico che viveva al Nord, con il quale ero in corrispondenza. Le buste mi venivano recapitate normalmente, la scrittura era sempre la solita, quella del mio amico, vergata con l’inchiostro azzurrino della sua penna stilografica, ma le date in cima a ogni lettera erano successive alla sua morte. Avrei potuto pensare che potesse averle scritte prima di morire e qualcuno continuasse a imbucarle una dopo l’altra a intervalli regolari, chissà per quale ragione misteriosa o scherzo di cattivo gusto, ma il contenuto delle lettere non lasciava dubbi sul fatto che fossero state scritte di recente, perché vi si parlava di eventi accaduti dopo la morte del mio amico e specialmente i primi tempi erano ricche di dettagli. Continuarono ad arrivarmi normalmente, quelle lettere, per mesi e mesi, solo che col tempo la scrittura si faceva via via più sbiadita e il contenuto sempre più vago. Ad esempio non diceva più “qui a Venezia”, ma “qui nel luogo dove adesso mi trovo” e anche il riferimento a fatti e persone si faceva più sfuggente, come se chi scriveva avesse una percezione progressivamente più sbiadita delle cose. Non diceva più “stasera vicino al Ponte dei Pugni ho incontrato mio nipote Giovanni, quello che abita al Ghetto Nuovo”, ma “oggi ho incontrato un tale”. Col passare del tempo queste lettere arrivarono sempre più di rado e le ultime erano quasi illeggibili, evanescenti, come se le buste contenessero nuvole.
(Da “Quel che vide Silveria” 2015)

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