Fu una giornata di inaudita tensione domestica. Perfino i cani da guardia, Lollo e Lolla, saggiamente transumarono dai vicini piatendo carezze, conforto, cure balsamiche, pastone di cuori e creste di gallina. Iniziata con i furibondi gemiti del neonato, unico nipote del vecchio, da quel giorno più vecchio, capodicasa. Proseguita con le vibranti proteste di figlia e genero che in cucina non trovavano battipanni, battimosche, piatti piani e contundenti, biberon per il topastro, forcine, batuffoli di cotone idrofilo senza vermi, armi che ogni casa perbene dovrebbe tenere per qualsiasi evenienza bellica. Pianti e grida in dodipetto non scuotevano soltanto il vecchio capodicasa. Anche le commessure in acciaio temprato nelle eccellenti fucine norvegesi del Arctic Circle Center 66°99 N, quel giorno ebbero a tremare. Un altro figlio intanto si accapigliava sull’argine del corridoio con la nuora, scambiata per Frufru-che-si-fa-il-bagno, il domestico filippino smaltava le sue unghie dei piedi con permanganato di potassio, sordo alla sentenza da cavallo scosso di chi gli si agitava intorno. Uno scroccone, appropriatosi nel parapiglia del ruolo di figlio (figlio figlio, di chi sei figlio). E il vero figlio: io l’avevo detto che questi pochi giorni di ferie non l’avremmo dovuto passare in questa casa. Puttana, bestemmiava inconsultamente costui rivolgendosi a una delle pareti dispari dell’antibagno (figlio figlio, di chi sei figlio). Apparentemente senza oggetto, la lava di rabbia montava infettando gli abitanti della dimora estiva di famiglia – provvisori o stanziali, nascosti o evocati. Perfino il pappagallo, caduto nero stecchito, zampe in alto, borbottava incredulo. Perfino la defunta grandemadre – consorte separata in casa e ivi sepolta – scalpitava mettendo in rotazione centripeta le laterizie – vanamente trattenute dal cemento a presa rapida francese. Tutto era nato, ma niente sembrava nato. A parte Fifì, la cui figlia e madre del neonato aveva dimenticato il nome e assegnato l’appellativo di topastro.
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