CARMELO BENE: L’EREDITÀ PERDUTA DI UN GENIO DELLA DEMOLIZIONE

“Ma in Italia basta voltarsi un attimo, e non si è più. Non si è più stati”. Così, scriveva Carmelo Bene in Sono apparso alla Madonna (1983), in modo lucidamente preveggente. Nel decennale della sua morte l’impressione che CB non sia più o mai stato è molto forte. Nel senso che risalta l’estraneità radicale, la solitudine profonda di CB rispetto al contesto artistico, culturale e politico nel quale ha operato. E, del resto, tutta la sua multiforme azione di ‘artefice’ è stata storicamente un forsennato corpo a corpo con l’establishment che non lo ha mai realmente accettato, che non lo ha mai in fondo capito. Che lo ha dovuto, più o meno, sopportare in mezzo ad una miriade di conflitti, in forza del suo innegabile, debordante genio artistico, ma lo ha sempre percepito come un ‘monstrum’, come un’eccezione da isolare, da tenere a distanza, per non contraddire la ‘regola’. Proprio mentre tutta l’opera di CB è stata un’immane profusione di energia e di talento per abbattere la ‘regola’ e le regole. La genialità speciale del suo fare artistico stava appunto nella sua potenza di demolitore della norma, di ogni norma. In teatro non metteva in scena, ma ‘toglieva di scena’, al cinema filmava l’impossibilità di filmare altro che l’immagine in sé, nella scrittura decostruiva ogni genere e forma, concependola come partitura performativa della voce. Finanche in televisione le sue apparizioni smontavano sistematicamente lo ‘specifico’ televisivo, sia nella reinvenzione per il piccolo schermo di suoi spettacoli e recital (basti pensare ad un capolavoro come Quattro modi di morire in versi. Blok-Majakoskij-Esènin-Pasternak, 1977), sia quando irrompeva in modo mercuriale in varî talk-show. Nelle due disfide tv al Costanzo Show (nel 1994 e 1995) la sua, insieme sofferente e furente, astanza di superba ‘macchina attoriale’ esplodeva dentro il monoscopio, producendo monologhi sofopoetici iperbolicamente catafratti, ermeticamente concettosi, spiazzanti e sprezzanti, che mettevano totalmente in crisi l’abituale linguaggio televisivo, dando la senzazione di un animale scenico metastorico e assieme vertiginosamente lungimirante che devastava e faceva a pezzi ogni brandello di logos comune.
Ecco in quell’aggressione alla banalità e agli standard del mezzo televisivo, in quell’aggrovigliato mix di alto e basso si può vedere la metafora del complessivo attacco di CB all’orizzonte politico- cultural-mediatico italiano. Così come il suo genio lo aveva fatto saltare dalla scena dentro la tivù, ma per portarci tutta intera la sua differenza, la sua dismisura teatrale, come lui stesso diceva “inesauribile e inesaudibile”, altrettanto il suo gioco artistico procedeva per continue mosse del cavallo che scardinavano ogni normalità sistemica. È sufficiente ricordare quando nel 1988, nominato direttore artistico della Biennale Teatro, di fatto ‘sospese’ la manifestazione per tramutarla in un ‘laboratorio critico’ su se stesso. Ogni atto pubblico di CB era vòlto a rendersi irrecuperabile, inafferrabile dalle spire normalizzatrici del sistema. Ed è in questa potenza irriducibile, eversiva del suo linguaggio-corpo che si rinviene, secondo me, la sua più alta lezione etico-estetica e culturale.
Una lezione di ‘sovversione’ palesemente irricevibile dal mondo politico e intellettuale italiano, oggi ancora di più di venti o trent’anni fa. Con quel sarcastico ammonimento “Occhio zombi, che stasera vi spacco il cervello!”, CB illustrava la sua strategia ‘contundente’ verso la teleplatea italiota, che poi rispecchiava pienamente l’intero Belpaese, mirando a scuoterla dalla sua torpidità
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mentale mercé colpi verbali, invettive shock, ultrasofistiche proposizioni che decostruivano i linguaggi del potere e del ‘comune’ con formidabile arte retorico-recitativa. C’era sicuramente del gran divertimento in questo gioco demolitorio, ma si sentiva anche da ultimo molto dolore, la fatica di un impegno condotto allo spasimo che non poteva infine non ucciderlo anzitempo. Tutta la vita di CB coincide con la sua arte e la sua arte è la “descrizione di una battaglia” (vedi L’orecchio mancante del 1970). Una battaglia che partiva, in primis (e ben prima del filosofo Mario Perniola), contro la comunicazione, contro gli “sformati di informazione”. Operando in una postazione (il teatro) globalmente marginale rispetto alla vita nazionale, CB ha saputo prima e meglio di altri avvistare la deriva nichilista e di biomercificazione totale insita nella tardo-postmodernità, opponendole una consapevolezza ribelle. Propria di chi sa di non poter non essere assolutamente moderno (come voleva Rimbaud), ma insieme lacerando questo ‘habitus’ (e habitat) facendo leva sulle sue profonde radici salentine popolar-religiose e metafisico-barocche.
Non è un caso che CB sia dentro/fuori l’avanguardia. Ne è dentro perché la sua plurale azione di eversione linguistica, di sfondamento del senso comune, di azzeramento narrativo, di radicale abolizione della dimensione consolatoria del fare arte coincide in larga misura con i caratteri fondanti, con i cromosomi operativi dell’avanguardia novecentesca. Ne è fuori perché non assimilabile alla logica programmatica e ‘ideologica’ dell’avanguardia, perché alieno ai movimenti e ai gruppi che hanno ipostatizzato l’esperienza avanguardistica sino a ridurla ad una comoda rendita di posizione cultural-accademica. Intervistato dai Cahiers du Cinéma (1968-’69) CB affermava: “La tradizione italiana è musicale… Gli italiani disprezzano il melodramma, eppure quella è la loro unica tradizione; vivono immersi in una cattiva coscienza intellettuale, culturale… Cantano non pensano”; e poi: “Verdi creava azioni per le orecchie, io creo musica per gli occhi. Credo sia la stessa cosa”. Forte di questa formidabile coscienza antropologico-culturale CB attinge a questa tradizione, ma per rovesciarla in qualcos’altro, in un destrutturarsi in scena che è precisamente il pensiero della lingua, il pensiero della phonè, della voce in azione come musica del pensiero che si depensa, che si astrae da sé per darsi come puro evento della ‘macchina attoriale’, dell’in-dicibile, della ricerca di una parola ‘prima’ delle parole, ossia del soffio misterico dell’Origine assoluta del Verbo.
Non sorprende, a tal riguardo, che vecchi critici nemici, commemorandolo, gli neghino ancora oggi di essere stato un “grande attore” (se non lui chi? Albertazzi?), e gli concedano meramente di essere stato un “istrione” sia pure “sommo”. Mostrano soltanto di aver nulla compreso, di avere colossalmente frainteso le proporzioni e la portata dell’opera complessiva di CB. O, se hanno capito, è la reiterazione di una interdizione verso chi col suo radicale dis-sentire metteva a nudo la coscienza nazionale, ma la perseguitava e la dissacrava solamente per portarla a confrontarsi con la sua verità, cioè con la vertigine del suo vuoto, oltre le falsità tranquillizzanti della ragione di regime, i luoghi comuni della religione, i perbenismi e le manipolazioni di una tradizione intesa come panacea, come ‘oppio del popolo’. In assoluta controtendenza versus il sentire catto- comunistico italico, CB ha condotto la sua missione di artista patologico e mai patetico, incarnando un ruolo anarco-gnostico di post-artaudiano pellegrino nel deserto della “crudeltà”, ovvero della perdita, della dépense, dove l’attentato permanente al linguaggio si fa ‘spreco’ di corpo-scrittura senza organi, torsione dis-organica verso ogni ordine discorsivo del Potere.
Inimitabile per definizione, CB non voleva né poteva avere eredi. Pure, la sua eredità filosofico- artistica è ancora largamente a disposizione tramite i suoi scritti, i suoi film e i tantissimi video reperibili in rete (basta farsi un giro su YouTube). L’eredità di uno che ha speso l’esistenza per essere un “capolavoro vivente”, la vivente emanazione di un’energia-duende che irraggiava e
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bruciava tutte le mediocrità, i conformismi, gli opportunismi, gli equilibrismi compromissori dell’intellighentia italica. Se parafrasando Heidegger possiamo dire che la casa dell’essere è la voce, l’avvento (come un miracolo) della voce di CB con i suoi cento e cento registri, i volumi, i risonatori, i saliscendi, i soffiati, è pura musica dell’essere. Nell’arte maiuscola della sua phonè si trova la prova provata, assieme materica ed eterica, della verità essenziale della sua lotta senza confini contro tutte le visioni dominanti, edificanti, ‘positive’ della società e della cultura. Nel tempo odierno improntato al consenso di massa e al mercato, la distanza da CB, dalla sua libertà polemico-creativa appare abissale. Ma la potenza ‘negativa’ della grazia del suo artefare ancora ci riguarda, ancora concerne chi voglia provare a “restare inconsolabile” per nuovi ricominciamenti di senso, di tensione, di “sacrosanta e rigorosissima indisciplina”.

5 Commenti

    1. giuseppe alagna

      E’ un commento straordinario, Marco, per profondita’ di analisi sulla figura ‘incomprensibile ‘ del grande artista.
      Sembra quasi che tra lui e la massa (il tutto ?…) ci sia una differenza “biologica”
      ancor prima che culturale……
      Alcuni nascono cosi, come i malati, il resto (il quasi tutto ), quello creato da Dio, e’
      invece sano, uniforme, e percio’ conforme, mediocre, merciaio, antimetafisico…….E’ tutto un paradosso che tu ci hai saputo ridare con dolorosa chiarezza.
      Giuseppe Alagna

  1. Grazie Marco. Hai disegnato un quadro impietoso e inquietante della società italiana con cui CB ha dovuto fare i conti. Che non era diversa dall’ipocrita e falso moderna società nostra. O forse la nostra è anche peggio. E hai delineato un profilo di CB circostanziato nella sua irriverenza e nella rabbia preveggente. Un profilo appassionato.

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