A-e-do.
la spiaggia rosa esposta al desiderio,
mulatte le spezie, rapida la luna.
Il maglio è nel petto e voglio vedere che noce è.
Apre una bottiglia di vino e m’aspetta.
Tremo, io topo. Prendo un capriccio per non armarmi in maligna commozione.
La sensazione ridicola che il mio corpo è piccolo in un ponte bianco. Deformazione forse inelegante. Fa male. Ma in tale modo. Che giro la testa e prevedo. Voglio prevedere,
vedergli i modi.
Abbracciava me e nel bacio graffia.
Una spalla, il petto, contatto. Io fondo al timore.
O né ciò.
Me lo porta via la marea, questo giovane grigio! Poiché lo scopo di questa sabbia è che d’acqua vive. Che la gente ha emigrato in questa sommossa di mare vorticoso verticalmente
con legni di sandalo e pepe inchiodati nelle stive.
Che i pugnali incendiavano i petti e la paura. E la paralisi si fumava i corpi da gladiatori,
combattenti subordinati e le reliquie ancora ancora echeggiano da fondali con facce d’uomo
e i ritratti splendono assiduamente tra le onde.
Indecisa si rammollisce la caccia. I corpi si addormentano e lasciano una via di colori.
La fronte grassa di gin, il ballo delle belve
e i pugnali ora promessi a collare di silenzio.
A-e-loth.
Che splendore l’allucinazione del predatore distratto. Si immerge come embrione redento di madre. Si dà un’implosione. Il suono si è discusso nel silenzio e i piedi, lentamente, cessano il contatto col suolo. Le gambe del mare tornano vicine e i pesci promettono, promettono e mentono discreti.
* scultura di Agenore Fabbri