1968
I
Cominciano i suoni. Li sento
diversamente, e quindi da una certa distanza contratta. – tanto per dirne una: non rivolgo la parola a mia madre già da quindici giorni, ma in genere la vedo poco. Lei lavora faticosamente ai grassi, piegata in due, con le gambe dritte e divaricate, il sedere in primo piano. Resiste alle puzze, ai tanfi; le mani e i piedi durissimi con una rete nerastra di crepature dove stanno annidate scaglie di vetro, pidocchi bianchi originali autoctoni, flottiglie di cadaveri di spermatozoi, risulta di cuoiami e fibre tessili, essenze, afrodisiaci, polvere di sangue. – non importa potentemente che sia mia madre. E poi riesce complicato distinguere tra lei e ciò che la copre. Questo potrebbe essere una vestina, una vestaglia, una sopraveste, un paio di mutande di nonno Cloro scucite e convertite in sacello; o soltanto uno sfondo neutro su cui sta apprettato uno schema di fiorellini neri col fosso bianco nel mezzo. La materia del suono io la ricavo dunque da quest’oggetto otticamente inscindibile. – so che mia madre, che sta sempre sulla veranda, che lavora senza economia: decidendo di non rivolgerle la parola affronto direttamente, per mezzo dei suoni, la memoria, e stabilisco così una specie di tregua col mio sguardo miope, assai miope.