NONNOCLORO (II)

II
Mi chiamano Pipino ma la cosa non mi sorprende. Deriva da Pipo che però non è breve di Giuseppe. La stessa differenza passa tra una mauser da sera e una colt comune. Pipo non è nessuna delle due: se ne può trarre dunque qualsiasi pipinepaio, con assoluta legittimità. In un certo senso fui io stesso a suggerire il senso della necessità della variabile, dopo uno scarso ma intenso consumo della costante. Feci pressappoco così: avendo ormai nettamente distinto il mio nome da quello altrui e significando ciò che mi toccava fare sempre qualcosa come correlazione – o meglio: quando cominciai a capire che il mio nome veniva pronunciato soltanto nei casi in cui mi toccava fare o non fare, cioè puntare un meccanismo, cioè con la questione della volontà spontanea che in tutti quei casi veniva puntualmente interrotta: allora smisi di rispondere e successivamente anche di capire. Il che produsse una certa confusione e diverse classi d’intervento contro la mia persona. Sottoposto ad una comune forma di tautologia progressiva; obbligato a subire il boicottaggio della ricorrenza violenta degli strumenti e delle presenze: gente e oggetti, gentoggetto neutro, il gentoggetto circondato di nero che quindi mi procura abitudini piacevolissime ripetendo ‘pipino, pipino,.. pipino, pip inopi’ pipì nopi’pì, eccetera. Soltanto nonnocloro attraverso la mamma che mi chiama Pipino; raramente viceversa, ma non mi sorprende. È perfettamente naturale e in genere complicatissimo. E quantunque la sorpresa – e sebbene – non sia necessaria, ciò non toglie che l’abitudine al pipino dopotutto mi manca. È come l’assenza del suono e il metallo è dunque il piombo, estratto dalle inesauribili miniere di Saturno in assoluta solitudine ed esautorata aridità.

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