CHI MUORE AMA TACERE (2)

Ci fu qualcosa di indicibile nel dolore, un’ebbrezza mortale nell’orbitare improvviso verso la vita antenata, qualcosa di peccaminoso nel non stancarmi di mangiare olive nere cunzate, le compravo al mattino secche e salate e le mettevo a rinvenire nella saliva. Un museo immaginario – nel ricordo che ho di Malraux – mi si elevava attorno, pavimenti teche e soffitti, ogni angolo possibile foderato di basilico, un etere profumato su cui svenire e forse anche capovolgersi. L’alfabeto della natura fu sacrificato su un’ara dedicata a tutta l’arte imparata dai tramonti.
Avevo mal riposto ogni cosa, tutto dentro e fuori ne uscì turbato. Qualcosa di fuligginoso fece guaire l’asino asceso dal greto secco di un fiume, espoliato di papiri. Così non potevo più scrivere e le parole mi si eviravano già alla base del collo. Lavavo i miei piedi nel collirio e umettavo lo sguardo di pomice.

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