CHI MUORE AMA TACERE (5)

Ci fu qualcosa di abbagliante nella dispersione semitica della volontà. Mi impegnavo a comporre una granita fresca usando briciole di pane, ma tutto mi risultava un ossimoro, poiché i miei agrumi e le zagare danzanti si erano tradotti in manierismo per tutti i tuoi futuri dessert. Migravo anch’io, a mio modo. Avevo una coda limacciosa di festa, la indossavo nelle sere in cui i palmizi s’azzuffavano nel vento e i locali notturni si riempivano di ciglia. Tutti sembravamo monetine tintinnanti, vaniglie meticce di menta eravamo, e tutto poteva andare bene. A parte l’impercettibile grinza del ritorno, quella del primo sonno, quel soffocarsi lo starnuto nello stomaco, quella cecitudine improvvisa che ci lascia inciso negli occhi il paradiso, come fosse l’unica parola imparata in tutto il tempo vissuto.

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