IL BIANCANTE

“Della bicicletta mi interessa l’aspetto poetico”, dice Mikael Colville-Andersen, urbanista danese famoso per gli studi sulle piste ciclabili, tentando di passare lui stesso per un poeta. Denunciando quanto il suo lirismo – ammesso che possa averne un briciolo – invece dipenda senza appello da immagini didascaliche e da repertori stantii. (E demolendo definitivamente anche quel poco d’interesse che avevo provato nella prima parte dell’intervista per tutto l’aspetto tecnico). L’affermazione è tanto ingenua da terrorizzarmi: meglio limitarsi alla progettazione, per lui, molto meglio; e zittirsi su tutto il resto. La bicicletta non ha alcun lato poetico, e se ne ha uno, comunque, non mi interessa più di quello di una lombata grondante sangue o di quello di un caccia bombardiere che precipita. Definire poetica una bicicletta solo perché è il mezzo più antico ancora in circolazione o perché sulla sua sella si sfregano milioni di fichette e minchette che ci ricordano il paradiso perduto, equivale a un’affermazione che il nostro urbanista si guarderebbe bene dal proferire: la natura è sempre benigna. (A proposito: perché da noi un dentifricio si dice sbiancante e in Inghilterra biancante?)

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