Fu per caso un pomeriggio di primavera, o quasi per caso, cioè secondo certe probabilità logiche. E avvenne nel retro della casa, dove c’è ancora la vasca rettangolare di cemento e, addossati ad uno dei suoi lati, i bidoni con tutti i liquidi, bidoni speciali che non si possono arrugginire e liquidi di esperimento che talvolta scompaiono e poi ritornano con colorito più gradevole, fermentato, brillantissimo, altri però induriscono ma un impercettibile spostamento di posizione, li tempra, ora queste modificazioni incidevano moltissimo sul sonno di nonnocloro, lì davanti, accanto alla vasca, su cui gettava la sua magnifica ombra, anch’essa in perfetto divenire di cottura. L’ombra di nonnocloro, che tra l’altro copriva il sederone di mia madre riducendone leggermente l’invadenza, emanava vibrazioni piccole come monatti di gradevoli e rumorose e nell’insieme era forma di vento e colore di foglie di gelso. Mi situavo al centro di quelle vibrazioni e facevo in modo che pipino raggiungesse la sua massima lunghezza. Lo tenevo orizzontale premendolo con un dito. Così per mezzo di quelle vibrazioni, senza spegnere la torcia elettrica abbandonata sotto le foglie secche ai miei piedi, il mio pipo per conto suo elaborava stagioni e schede col sedere di mamma, molte stagioni e moltissime farse in un solo pomeriggio, mentre i grassi bollivano e le lape succhiavano nella barba lunga di nonnocloro. Tutto questo senza considerare affatto il cileppo, qualche centimetro più in là, nascosto nel cespuglio.
NONNOCLORO (IV)
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