Con l’altro sono due venti per la mia tavola di moltiplicazione, e te, ululato di galera.
Sfamata due volte due, un uomo due volte due mi ha sfamato con un brodo di grano, un brodo di lenticchie, un brodo di crudeltà, un brodo.
Due volte ho visto due lune, una tra il giorno e la notte l’altra nel mezzo dei secoli e quest’ultima nuoceva come una frusta. Due lune potevano illuminare tutta la polvere nei fondi dei magazzini e ogni mio verso scritto sotto la sporcizia mi apparve minaccioso. Fratte di albugini in lunghe ore ignote. Poi mi lavai le mani, invocando il labbro chiuso di cristo, golosa della secolare sua eccellenza, della sua essenza di porfido. Un vento furioso mi chiamò per nome, mi disse che voleva vendetta e m’intralciò al punto che decisi di andare a servire brodo in un convento.
Potevo cenare poco, potevo non baciare, a volte raccogliere i calzini, lavarli, riporli sulle brande delle celle e tutto questo era un lavarsi le mani, un ritirarsi nell’unica luna, un cenare senza brodo, magari con una goccia fredda di insalata nello stomaco. Un bicchiere di vino secolare e un andare di cella in cella macilento. Un grande guardare e un buon pensare. Mi promisi di progredire.
La creatura progressiva pilucca nella solitudine per gradire meglio la poesia, apre la bocca, la lascia scivolare dentro. Trema ingoiando, esulta alle rime. Conosce tutta la terra, ormai, la terra senza gli uomini la conosce tutta. Rimane con un corpo liscio, con la sua mestruazione fissata nel ventre; e il suo corpo diventa un deserto su cui già cadono con la calma gli struzzi – e cadono le distanze tra le oasi.
Dunque, ma che puttana. Dormire con quattro pensieri e un guanciale dei loro quattro inguini. Che questi quattro pensieri finiscono per regolarsi, per incastrarsi, imparano a coabitare, perfino a volersi bene. Prendono in affitto funghi, grassi, antichi, cristiani, coabitano nella razione di gambo, via dal grembo della terra, lontano dall’ombra dell’albero. Il mio petto li tasta, insegna a regolare il respiro durante le loro frequenti erezioni. Questi quattro pensieri, quando vado in giro a servire il brodo in mensa e i commensali appoggiano i gomiti sui banchi, in mia assenza si stratificano, producono proteine, mi fanno trovare uova di tutti i colori. Io con loro canto, ma più sul mare che sulla notte. Andiamo a visitare la sua carezza salata, assistiamo alla nascita del suo misterioso rumore. E un afflato ci unisce tutti, quel piacere miniato della cecità, quello spogliarsi reciproco dalle sagome. Sorseggiare il flutto dell’unzione.
Ogni tanto mi lascio sola e passeggio lentamente nel chiostro. Il verde vaneggia e sono io a redarguirlo. Allora mi siedo sul bordo del pozzo centrale, mi rannicchio e metto la testa tra le mani con i gomiti sostenuti dalle ginocchia, e aspetto. Aspetto che le lumache mi accarezzino con le loro anteriorità, aspetto il loro chiaro peso e i colori oceanici delle scie. E sopra il sole è crudo.
I monaci al vespro sono bronzei.
Il mio riposo è nutrito dal loro respiro dentro i miei polmoni. Sono mesi ormai che non torno a casa e procedo per enunciati. Ho fatto della cesura la mia apologia. E lentamente perdo ogni durezza. Sento il ritorno dei muscoli, non vedo più allarme negli atomi della mia pelle sempre più bianca. Accetto il liquore verde e crespo dei monaci per la cura segreta che conserva. Mi riempie la bocca, mi piace soffermarmi sul ponticello che unisce le sponde di viti e limoni.