Fu una giornata di inaudito disonore domestico. Perfino i cani da guardia, Lollo e Lolla, saggiamente transumarono dai vicini piatendo carezze, coccole, cure balsamiche e mezzo pastone di fiori di camomilla. Iniziata con i tremebondi gemiti del neonato, unico nipote del vecchio capodicasa da quel giorno più vecchio. Proseguita con le proteste di figlia e genero che in cucina non trovavano battipanni, battimosche, oggetti piani contundenti, biberon per topastri, forcine antiugola, batuffoli di spazzatura macero-verminosa, armi proprie che ogni casa perbene dovrebbe tenere per qualsivoglia evenienza bellica, sia pure un pianto in triplo dodipetto da neonato. Le ibernate commessure in acciaio temprato nelle valenti fucine dell’Artic Circle Center 66°99 N, quel giorno ebbero a tremare. Un figlio di nessuno intanto si accapigliava sull’argine del corridoio con la nuora, scambiata per Frufru-che-si-fa-il-bagno, il domestico filippino, intanto intento a smaltarsi le unghie dei piedi con permanganato di potassio. La sentenza da cavalloscosso di uno scroccone, appropriatosi nel parapiglia del ruolo di figlio: io l’avevo detto che questo weekend non l’avremmo dovuto passare in questa casa. Sgualdrine insultava, inconsultamente bestemmiava puttane, costui, rivolgendosi ai maschi di tutte le 7 pareti pari dell’antibagno. Apparentemente senza senso la lava infettava di vitiligine e psoriasi gli abitanti della anaffettiva dimora estiva di famiglia. Provvisori o stanziali, nascosti o evocati. Il pappagallo cadde spellato stecchito, zampe in alto. La grandemadre, consorte separata in casa e ividefunta, scalpitava: mettendo in agitazione le laterizie appena appena trattenute dal cemento a presa rapida francese. Tutto era nato ma niente sembrava nato. A parte Fifì, appunto, il neonato cui la figlia aveva dato un nome scordato. Chi è Fifì? Particolare questo che avrebbe potuto chiarire gli inizi difficili. Il vecchio, da buon papaciere, fu l’unico a dolersi del devasto sonoro, ora pure trasmesso a suppellettili, ragni, corna di volpe collezionate in anni di solido sodalizio con la casa carcassa. Senza scappamenti né falde acquifere i nervi infuocati di ciascuno degli occupanti non scatarravano. La giornata inceneriva in controsole. Non vi fu più né pranzo né cena né tregua. Gli ospiti di numero medio finirono in undici tutti in kambusa, chi con catenacci d’epoca che non serrarono lo Spavento in Bocca, che poi era un dolce alla menta eleusina sperimentato dal capitano, chi sparati dalla camera a vapore da cannoni di quinta o da energumeni in T-Hirt a strisce ondivaghe per televisori anni 50 senza sintonia, pagati per sedare la rivolta. Fu la fine alla fine ma il vecchio capodicasa riuscì a chiudere tutti nelle eleganti celle d’arte e di contrizione, ferrando le ultime scorte con sparatrap argentino. A tutti promettendo: non vi aspetta domani.