di Elio Coniglio
Alla svelta, chi può anche carponi, recuperiamo nasi, orecchie e lingue cascate a terra per il freddo col far delle ore sempre più pungente e, in assoluto silenzio, c’incamminiamo, lasciandoci definitivamente alle spalle la Grande Curva. Un tenorile tartaglìar di dentiera dà il là al nostro incespicoso andare lungo l’incerto ciglio della statale dal quale, di tanto in tanto, distogliamo gli occhi, per indovinare, prima che faccia buio, un riparo adatto dove poter attizzare un fuoco e cacciarci letteralmente dentro il suo scoppiettante calore;- un fuoco che, di comune accordo, cento passi più tardi, decidiamo di far divampare fra le nude radici di due vecchi alberi attorti l’uno all’altro a poca distanza dalla cunetta. Immobile e così ben avviticchiato da scambiarlo per una delle tante radici ritorte, il lucertolone, spaventato dai nostri trapestii, si desta da un sonno comatoso, con un balzo miope atterra vicino ai piedi di Tà, scansa il mio calcio, percorre rapido come un lampo una dozzina di metri, si blocca su tre zampe, gira la testa verso di noi e ci mostra un muso confuso,- offeso,- insolente,- scarlatto,- minaccioso… e, un solo battito di ciglia dopo, comincia a chiudere, attorno a noi, cocciutamente assiepati davanti ai due alberi, cerchi lenti , sempre più stretti, sempre più stretti…