Alle sette del mattino telefona l’arpista. Con voce concitata vuole che vada in giardino. – Cosa succede? – chiude. Mi alzo, Pablo mi passa veloce tra le gambe e guadagna in uscita la porta di casa. E’ spalancata. Non capisco. Verifico la serratura. Apro e chiudo senza difficoltà. Tutta la notte la porta è rimasta aperta, quantomeno socchiusa. Un colpo di muso. Pablo sarà entrato all’alba. In cucina bevo un bicchiere d’acqua. Nel soggiorno tutto è in ordine. Esco in giardino. Tra tubi innocenti sacchi di cemento e cazzuole in una chiazza sanguinolenta il gatto dell’arpista. L’aveva preso in casa da qualche giorno contro i topi. Un persiano o un siamese non riesco ad identificare la razza. Pablo lo ha azzannato, gli ha quasi staccato la testa. Ciuffi di peli e sangue tra calcinacci, dappertutto. Si sarà fatto un paio di giri nel giardino trionfante. Vado in bagno, pipi, mi lavo le mani, sommariamente la faccia. Come i gatti, penso. Lo diceva mia nonna. Ho un brivido. Ritorno in camera da letto e telefono all’arpista. Risponde al secondo squillo. – Il gatto è andato – Evito i particolari. – Pablo è entrato nottetempo. Non so come. Ho trovato la porta di casa aperta.- L’arpista mi ascolta. Concludo. Dopo dieci secondi parla lei. Verso le sei è stata svegliata dal frastuono che proveniva dal giardino. Non si è potuta affacciare per le impalcature. Ha sentito il baccano, ringhia ringhia e sbuffi di gatto e le zampate di cane sugli attrezzi degli operai. – Sembrava di vedere la polvere salire all’altezza della mia finestra. Volute grigie – precisa. E però non aveva immaginato il peggio per Patufè. Le dico che di solito, infatti, sono i cani a rimetterci gli occhi. Scoppia a piangere, chiude. Appena in tempo per non chiederle come e perchè Patufè fosse giù. Rischio: la richiamo. Risponde dopo mezzo squillo. Le domando cosa debba fare di Patufè. Riattacca. Mi vesto e torno in giardino. Prendo una pala degli operai e scavo in un angolo libero. Mi stanco presto. Quanto basta, credo. Alzo la carcassa del gatto con la vanga e con la stessa la sistemo alla meno peggio nella fossa, la ricopro di terra un po’ schifato e concludo mettendoci sopra un grosso mattone di tufo. Ritelefono all’arpista. Ho seppellito Patufe nel giardino. – Grazie – risponde lei – non ci speravo – Piange, non mi azzardo ad augurarle buona giornata, ciao e chiudo. Sono le otto, bussano alla porta. Gli operai. Mi rivolgo al geometra: l’andare e vieni con la porta aperta ha delle conseguenze imprevedibili. Il geometra non vuole sentire storie. A tutte le ore Pablo è solito fare delle puntate in giardino. Sarebbe opportuno parlare con il proprietario del cane. Ho utilizzato, il mattone di tufo in maniera impropria, serve ai lavori. Gli operai finiscono alle diciassette. Le conclusioni della notte riguardano solo me e i vicini. A tale proposito mi ripropone il biglietto da visita del suo pub Zenit. Vado a fare la doccia.
(capitolo diciottesimo) E GLI AVOCADO SPARIRONO NEL GIRO DI UNA NOTTE
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