VENEZIA 2007

una volta sono andato a venezia alla notte bianca dopo cento giorni di spettacoli in onore di j. beuys, in difesa della natura, rimboschimento del mondo, riscoperta della natura fino alla costruzione di una macchina per separare il grano dal loglio, lunga centrifuga a cestelli dentro un’armatura di legno. è di beuys, la conservano nel museo di …, quando era ospite della baronessa d., madrina della notte.
è il paese di p., fotografo e un editore. ha quattrocento cittadini e ha avuto la fortuna di vedere cadere beuys come una meteora negli anni settanta. in realtà l’artista, come mi è stato detto, non aveva per niente rapporti con i paesani, ma era una presenza e ha dato nuova vita alla regione che è frequentata da artisti famosi, dai critici, e ci sono premi e convegni. p. ha conosciuto beuys.

la baronessa è come puoi immaginare, ha la erre moscia è fedele a beuys fino al fanatismo, crudele. tutta notte faceva discorsi lunghi, e disprezza la gente, prende in giro chi mangia e non guardava lo spettacolo – cibo della mente – e ordina ai camerieri nel microfono di spazzare i tavoli in mezzo alla cena.

p., che fotografava ogni cosa, mi ha confessato che temeva che perdesse la ragione. secondo me rischia di dare i numeri – ha detto.

incontro il direttore del museo di sarajevo, un uomo piccolo, calvo e molto serio, vedovo, ha perso la moglie nell’ultimo anno di guerra, un uomo appassionato che ha fatto un breve intervento e ha regalato a tutti un libriccino elegante, scritto da lui, una specie di vademecum dell’artista e dell’essere umano, disperato perché senti il dolore per la perdita della persona più amata. ma la passione non l’ha abbandonato, credo che parli con il fantasma di lei, che trovi coraggio in lei che è morta. ha gli occhi piccoli e azzurri e la bocca sottile, il naso grande. mi ha dedicato il suo libro – claudio, l’amore e la bontà sono la bellezza della vita – p. gli ha scattato molte foto e una l’ha scattata anche a me, appeso al palo che regge un pannello nero, accanto a una gigantografia di beuys con il cappello di feltro e l’aria triste. anche io avevo l’aria triste ero spettinato, ma non ci ho fatto caso. il posto si chiama thetis, dietro venezia, dietro l’arsenale e la biennale cui sarebbe collegato se l’unico ponte di collegamento non fosse rotto. ci si arriva con il battello, oppure lungo un camminamento sotto le mura antiche dell’arsenale e dal pontile si vede l’ultima laguna e di notte delle luci. ci studiano mose e progetti vari. ha un parco grande, con le sculture ovunque, una bandiera arancione – ho sentito tanti nomi fatti con deferenza e anche con tranquillità, che non conosco – un bambù dipinto arancione e d’oro e un bunker – bunker-kapelle – con dentro un portacandele di ferro come in chiesa e una volta dorata che si illuminava, c’era anche un grillo. una gabbia a cerchi concentrici, concava, come le gabbie per topi che una volta entrati non sanno uscire, ha due ingressi opposti che non si guardavano e le sbarre seguono l’andamento di una spirale. in quel parco gli artisti facevano le scene, le hanno fatte di notte. il ballo di un ballerino greco, dipinto di bianco come un mimo, infilato dentro una struttura di carta bianca che formava un mantello appuntito da cui venivano fuori solo le braccia e la testa, diventava uno schermo illuminato da forme disegnate bianche e nere, di luce, con una musica. il ballerino eseguiva movimenti lenti e la musica era lenta, la baronessa lo aveva detto: si tratta di una danza animale, perché gli animali non hanno mai mutato il modo di muoversi. è andato alla bandiera sotto un fascio di luce, sembrava senza piedi come un fantasma. si è liberato della crisalide, è corso via nel prato verso gli alberi. cosa voleva dire non so, ma le cose più belle mi fanno pensare a una parola, sovrastruttura. pensavo che la pittura non è sovrastruttura ora, che in qualche modo è entrata nelle fibre degli esseri umani e non può stupire, invece l’arte nuova è fuori dalle possibilità degli esseri umani e per questo ne attira, e per questo la baronessa e gli altri erano sicuri che è l’arte di un’era nuova.

alla mezzanotte ci hanno fatti uscire in fila verso la laguna, concentrati sul camminamento e sui moli, dal mare è arrivato un piccolo battello carico di uomini e donne, reggevano delle croci vagamente decorate, illuminate da luci a colori. sono scesi in processione guidati da un uomo che aveva la sua croce distesa sotto un fascio di luce radente che la colpiva. si sono diretti seguiti da noi verso un container sul lato di una piazza di thetis. era chiuso da tende nere, la processione di quelle persone vestite di bianco è entrata poi è uscita senza croci, l’officiante ha spiegato che quelle erano le croci dei morti della prima guerra mondiale e ha parlato dell’emergenza di una base americana. c’erano due carabinieri e due poliziotti mescolati alla folla che ascoltavano. l’uomo è un filosofo, mite e modesto, amato dalla baronessa. sono entrato dentro il container, era vuoto, le croci sparite come per un gioco di prestigio e sulle pareti erano proiettate in scorcio le immagini di una processione simile, con quattrocento figuranti – lo aveva detto il filosofo.

ogni spettacolo aveva a che fare con l’uomo, la natura, la bellezza, la bontà, l’ecumene. è naturale per quelle persone appassionate che vivono la vita in tutti i continenti e hanno scambi con gente di altre culture. lo è meno per gli altri, ma non sembra essere un problema. anzi, questa arte ha riempito un vuoto che l’arte tradizionale ha lasciato scoperto. e io mi trovo a partecipare a eventi nuovi, creati da anziani, di cui non riesco a afferrare il senso, che mi fanno impressione di apertura al mondo che non so condividere e sembra sovrastruttura. capisco che hanno la mente a un’arte così leggera che non può svelare la sua trama. la tiene in vita il sentimento del buono e del bello e della fratellanza universale, che in qualche caso può placare un’ansia, come con il direttore di sarajevo.

non so, ma né l’arte vecchia né la nuova riescono a commuovermi.

al mattino cercavo p., ho domandato a un vecchio critico deluso, con gli occhi bistrati dalla stanchezza che mi ha risposto – ma che vuoi trovare. la baronessa dava una bottiglia di vino con l’etichetta biennale. venezia era grigia, l’aria umida e pesante. ho ascoltato vivaldi con le cuffie, intanto che camminavo, le quattro stagioni, lo spleen di venezia, magnifica e decadente come nessun’altra. è superata la decadenza. dietro la vetrina di un pasticcere ho visto – in terza persona, vede attraverso una vetrina – uno strudel di cioccolato. chiedo alla pasticcera se era solo di cioccolato, mi ha guardato e dice che domande facevo, certo che era al cioccolato, cosa ci volevo, le patate? ha sospirato la gente oggi è un po’ stupida perché ha studiato troppo, le ho dato ragione e diceva che il suo mondo era semplice. voglio dire che nel suo mondo nessuno pagava uno strudel due e novanta, non ho insistito.

ho comprato delle piccole gondole di resina, con la scritta venezia che la commessa ha avvolto in carta da regalo a righe azzurre stampata con le vedute schematiche di palazzo ducale, san marco e scritte in tutte le lingue, arrivederci a venezia, auf wiedersehen e in cinese.

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