indicò quell’ipogeo notturno vicino al ponte del
diavolo la bocca che prese una spilla dalle sue mani. Quell’azzardo invecchiò nel
risvolto fals’azzurro della luce – all’uscita dall’ambulatorio sparì – così la lampada
nel vetro di Murano e un’altra piccola, di sabato sera
sempre a basso consumo, rotte perse nel viaggio al mare bianco di Trieste e
il loro schiavo ancora con le braccia nere in controluce ne fece la vera distrazione
dalla curva del golfo quando i sobbalzi esercitarono le strade. S’incrinò
di capelli sottili appoggiati alla plaçe de l’étoile mai pettinati prima – molti- ssimi rami e tante direzioni dall’impercepito, appena un sasso per la sposa
loro non se ne accorsero lì dentro – pur sapendo d’essere in tanti d’occhi – il danno fu irrimediabili frantumi e abrasi bordi rifrangenti. Ora
che hanno fatto viaggiare la macchina ( ) e forse la sposa se n’è volata via, m’interessa del vetro che resta lo scheletro da colorare già
qualche dolore d’ossa, di pizzicore involont. Involontario
o di capelli tirati dal suo braccio nel mio disegno
un piccolo taglio nel foglio d’Amalfi facendo
dell’altro a volte
vele scendendo
a volte troppo nella figura rovinosa dell’erba alta per due
verdi acquistati negli anni
“non riscrivibili ci di –
cono”, fuori diversi abbigliamenti
di lettura.
Nella coda dell’occhio il vetro assottiglia
la palpebra.