FRANCESCO

Abbiamo avuto un prete in comune, in anni diversi, a suo modo, voleva insegnarci a scrivere. Lo ricordavamo divertiti indicando dal tuo balcone la terrazza dove lo vedevi ancora passeggiare, poi tornavamo alla scrivania a leggere  Stirner e Nietzsche.

 

La scrittura pelle, l’interfaccia sghemba del tuo passaggio. Tu menabò zeppi di grafia minuta, io due cartelle da leggere nelle riunioni in libreria.  Tre viaggi Bologna Berlino Roma. Come sarebbe stato facile ritornare e non averlo mai fatto come sarebbe stata bella Venezia ed essere rimasti fermi all’aeroporto.

 

Fotogramma per fotogramma, oggi  la memoria chimica della pellicola.

 

Più giovani, ma le espressioni, le posture, non mi sembrano molto diverse. Non ho nostalgia di quelle situazioni, mi piace ricordarle come avventure.

 

Bastava una notte di treno.

 

Se solo non avessimo avuto il panico della folla sicuramente quattro parole avremmo saputo dirle. Avevamo immaginato un altro fine serata, tutti in pizzeria a concludere il gemellaggio con i giovani scrittori romani. Avremmo dovuto prendere una posizione?

 

Invece sei andato via e siamo rimasti a chiederci se fossi stato capace di trovare strada e casa e poi eri senza chiavi. Allora meglio due panini e aspettarti.

 

Eravamo saliti sul traghetto a mezzanotte per vedere le luci di Villa San Giovanni che si avvicinavano, avevamo chiacchierato spassionatamente tanto che ci eravamo confidati a vicenda le personali difficoltà libresche. Comodamente perché nello scompartimento eravamo soli e  l’indomani mattina all’ arrivo trovammo Sabi in stazione ad attenderci e andare a casa.

 

Ho due belle foto tue,  una sorpreso a leggere un giornale, l’altra dinanzi un grande quadro nel salone. Altero, lo sguardo intenso.

 

Poco più di un anno fa a Tusa, nella piazza del porto,   la tua disarmante fragilità dinanzi al mare.

 

(foto di Pippo Zimmardi)

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