Ovunque sei… diceva una canzone. Ovunque tu sia, ripetono sempre tutti ad ogni dipartita, ad ogni assenza, come se l’approssimazione e la vaghezza potessero mai contrappesare l’inesorabile precisione della morte.
Noi qui coi nostri bottoni d’osso di antica merceria tentiamo al cambio di avere once di vita al mercato nero del perenne ricordo.
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La tarda ora notturna mi porge adesso una tua fotografia di me su cui con penna rossa ritoccasti la sclera dei miei occhi. I messaggi che ancora conservo. Una conversazione interrotta. Poi ripresa. L’orma indelebile del tuo sorriso beffardo e dolce. Le volatili incomprensioni della nostra infanzia invecchiata. La tua barba da lupo che scandiva le lune dei tuoi anni. La tua scrittura che si legge e si rilegge sempre, qui, inalterabile oramai, beffarda e dolce come il sorriso che avevi, testimone in-verso del tempo – il tempo che un dio povero, avaro e anche ignorante ti ha voluto assegnare-. La tua casa a Palermo. Palermo nella tua casa. Palermo lontana da Tusa. Tusa lontana come Coyoacán. E la vostra dolce casa silvestre con i camminamenti tortuosi nei terrazzi di fiori e pomodori. E le selci e i gusci vuoti di lumache ascese in paradiso seminati qui e là per il sentiero.
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E noi, qui, ancora a dire vagamente Ovunque tu sia, ad ogni assenza e a mendicare memoria?
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Se davvero si potesse entrare e uscire dall’Ade, come Ulisse, ti troveremmo seduto lì, a Coyoacán, con Costa a intrecciare parole per costruire lo scubidù dell’eternità.