I MORTI IN CIELO

Non so dirlo il vuoto se non trovo un contenitore. Non dormo, ridono rondini e merli che rubano il pancotto. Dissimulo come yogi all’alba la strada persa. Rifaccio la schiena dritta inspirando-espirando e smetto gli elastici del fare e rifare. Annettere l’assurdo sullo stesso piano di un gelsomino rubato a Carpensia prima dei morti in cielo. Un immenso gelsomino che aggettando sottili germogli  bonifica la casa chiusa fiorendo ancora. Occorre ritornarci per un’altra volta e senza interpretazioni. Stare dentro al tempo, come tintinnabulum avvertire i margini, se ci sono. Detrarre il passato per vedere innanzi, non assaggiare in anticipo con parole dismesse da tegumenti raffermi. Percorrendo il non sapere o il risentimento, anche se le otturazioni sono saltate, non fermarsi alla misera storia da tavolino. Ho interrogato I Ching e la conta di tre civette sul comò per una volta, e c’era una volta l’orto dei miracoli…? Lo so, nessuno superò il confine delle giaculatorie, neppure in regia, e proprio quella fece l’altra parte alla medaglia. Alcuni dotti e mascalzoni aggirarono le pecore in fuga per portarle in pianerottoli ambigui, promettendo una via d’uscita. Il gregge incustodito precipitò nel dirupo e lì trovò di che sopravvivere.

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