La nevicata del ’56 che Gabriella cantava, ritorna in questa primavera di silenzio. Io nacqui e s’incendio il fienile nella neve. Il pane rimasto da due anni nel cestino di vimini è un’eucarestia per le gallinelle che sono brave ovaiole e mitigano il disabitato con-versando. Il dente di leone è fiorito nella siccità e le altre prataiole danno in surplace dal proprio cuore il tenero verde. Pioverà. Nelle tazze lasciate in giro, nelle bacinelle, alla pari cadranno rintocchi per gli assetati. Dove siete andati? Tutto il mondo sfronda da un emisfero all’altro dentro e poi dentro ai frattali infiniti delle geografie. Circolava da anni un aggettivo, come foglia appuntita che ricopra i prati quando ancora il suo albero non c’é. Successe che il dopo arrivò prima, che il ramo precedette il tronco ed in modo capillare la linfa di una parola futura già era nella norma. Inondava, infiammava, sorprendeva, minacciava, esaltava e tutti ne consumavano una quantità. Non ne sono dipendente, conosco solo il fuoco dell’abate, rinnovato Prometeo, che lo portò dall’inferno nel bastone cavo della ferula. L’odierno, assai più letale parassita, è meschino trasformista fa l’ospite ben vestito presso alcuni e il cugino traditore in casa d’altri.
QUANDO ARRIVO’ IL DOPO
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