e tu mi dici, io ti dico, è la stessa cosa in fondo,
la stessa cosa, in fondo, che si è, o abbiamo,
riannodato il tempo alla sua quarta dimensione
(la sera, il mare ed altro ancora che non sto qui
a specificare), andando, parlando, un po’ qua, un po’ là
perdendo quell’anima veloce, forse, dentro,
che coglieva, se non il tutto, almeno il niente,
che ora tu mi chiedi e che io mi cerco ancora,
ma è stato un esilio da ridere, dico, il nostro,
da riderci sopra, ora, senza distanze da non so,
né antidepressivi di quelli che ti allontanano,
un minuto almeno, io da me e tu da te,
ma mi sa di strano qui, o quasi, di tanti mondi a strappo
che non si può dire di uno, non si finisce nessuno, che,
sotto sotto, in mezzo, sotto, nascosto più o meno, in mezzo
o sotto, oltre l’altro, dopo di me, circa, o prima,
oltre l’altro, dicevo, un pezzetto dell’io, dell’io perduto,
che in quanto perduto non c’è più l’io e nemmeno lo sputo,
dall’io perduto, da quest’emorragia, mia, di me, me ne vado,
o almeno vorrei, da un pensiero negativo che pensa
solo se stesso e che ne sente pure l’eco e il peso e i passi
fino all’osso (altrui) e oltre, me ne vado, o almeno vorrei,
e tu lo sai, ma mi sa di strano qui, o quasi, ogni volta,
di tanti io assenti e a strappo, di tanti mondi che
a ricordarli, come tu ricordi, non si può ricordare,
che a raccontarli poi, come tu mi dici, non si riesce a dire,
ma lascio acceso tutto, che poi, intanto, smetto,
in attesa, forse, di un finale ad effetto, del tipo:
sull’equatore di tante chiacchiere che ci (e mi e ti)
gira intorno, se un nodo (stasera, al mare) abbiamo fatto
è un nodo d’acqua, che mi piace, in fondo, questo
buttarci dentro, in un silenzio, pensa in un dire il già detto,
nel dividere il molteplice moltiplicando l’unità,
ma tu che fai? mi aspetti qua? sotto quest’unghia
di luna caduta di punta, qui in mezzo alla notte,
le tre e mezza di notte, in questo strano discorso,
partito da, mai più ritornato,
non che per questo può dirsi finito?
in ogni caso potrei dirti di ogni cosa, di una questione
improbabile, ad esempio, sul fatto che me lo sussurro
e me lo strillo il pensiero che penso, che prendo, ho preso,
in prestito da non so chi o che cosa, e che poco mi frega,
che a nessuno appartiene, come ogni pensiero, a nessuno,
e per me che mi amo, più o meno, pensa se pensassi
che fossi io il pensiero che passasse, non mi sarei
nemmeno più di me stesso, dicessi, ma io ci penso e,
a riuscirci, direi sempre di ciò che non so, a riuscirci però,
ma d’amore te ne ho parlato, ricordi?, prima di
non so che cosa, dello strano giro delle orecchie
e i capelli che lo scoprono, da un finale, credo,
sulle probabilità di me per te (che un po’ improbabile
mi sei, lo sai?), non ricordo come, ma d’amore,
in qualche modo, ti ho parlato e penso, dunque,
che nulla è da capire, ma ti prego, capisci, di questo
lungo discorso, di questa metafora strana,
di alcune intuizioni a catena che, cazzo!, non le ho più
da un pezzo, ma qui, del resto, nessuno è il meglio
di se stesso, in questa periferia che non esiste
in questi minuti d’attesa prima di non so (mai) che cosa,
notare il finale: ma io sono fatto così e mi piango oggi
il pianto di ieri che ieri piangevo e l’attesa, domani,
me la finisco da oggi,
o ancora: che si vive così una vita così, in punta di tempo,
riallestendo uno spazio dove ci si muoia anche così, addosso,
non finendosi mai,
oppure riscrivendo il tutto in pochi, ultimi versi:
e credo, quindi, intanto, dunque, forse, che:
non si parte da, né si arriva a,
e io sarei quello che sta in mezzo poi,
incazzato
in piedi
o deluso
in questa specie di foto di gruppo in cui io,
nuovamente io,
dicoti e ripetoti,
sono un po’ tutti;
ma non ti basta questo per cercarmi?