Qui si parla di carcere. Fa un caldo abissale. A un certo punto uno entra in questo carcere e già la storia si ingarbuglia perché non si capisce se chi entra è un carcerato o una guardia carceraria. Forse sono la stessa persona, guardia e carcerato. Per esempio, una guardia che commette un reato e finisce nello stesso carcere dove lavorava. Non è chiaro. Potrebbe essere il contrario: un carcerato che è uscito perché ha scontato la sua pena e subito dopo rientra perché, ormai redento, viene assunto come guardia carceraria. Oppure, se non sono la stessa persona, potrebbe essere semplicemente un carceriere che dopo l’ora d’aria cerca un carcerato da ricondurre in gabbia o un carcerato che ha appena accoltellato un carceriere e sta tentando di evadere. Non si capisce bene, il racconto è confuso, pieno di crepe, contraddizioni. Ma di sicuro c’entrano le scale, quelle di ferro che circondano il cortile interno del carcere, detto anche hangar, che quando le sali, quelle scale, i tuoi passi fanno un risuono terribile. Che quando l’uomo che è entrato nel carcere, non importa se guardia o carcerato, comincia a muoversi sulle scale, parte un’eco metallica, stellare. Sembrano colpi di revolver, i suoi passi. Ma la storia, nel caldo abissale, si ingarbuglia ancora perché nessuno sa bene dove portano quelle scale. Eppure nella storia la scena di uno che sale per quelle scale è la scena fondamentale. Veramente, non è sicuro che stia proprio salendo. Forse scende. Ma questo importa poco. Certo, non è chiaro. La storia si ingarbuglia, fa un caldo abissale. Ma quello che importa è che ci sia questo tipo, questa figurina in bilico sulle scale del carcere, nel caldo abissale. Che ci siano le scale. Che quel tipo sia mio bis-cugino.