Un cilindro di plastica trasparente, l’altezza un terzo del diametro, circa 15 centimetri, incollato ad una cornice cava con un fondo disegnato ad ovuli grigio-blu. In basso a sinistra spicca il disegno a matita di un granchio di fiume di media grandezza, lo stesso riprodotto decine di volte in sottili ostie di acetato all’interno del solido. Un microcosmo sospeso. A guardare da vicino le pellicole sfasate, moltiplicate e ingrandite, sembrano immerse nell’acqua. Cerco di verificare la presenza dell’acqua ma, ferma alla parete la mezzaluna d’aria non si sposta. L’immobile è moltiplicato e il molteplice si replica senza differenze apparenti nell’acqua ferma. Cerco la goccia che ingrassa la bolla d’aria e trovo la pozzanghera d’acqua. Il disegno a matita non si accorge della pozza umida a terra. L’architetto mi guarda sornione. E’ il contributo del suo migliore allievo alla mostra da lui organizzata. So quello che vuole ed è per questo motivo che non ho niente per lui. Farò fotocopie e deciderò in un secondo tempo se tenere io gli originali dei disegni o no. Voglio poi, anche per distrarlo, che commenti. Gli chiedo:
– ma perché il granchio clonato? –
– un divertimento dell’occhio, ripetizione dell’identico, affermazione della possibilità essenziale, insomma, c’è più di un motivo per mostrare un granchio e anche una storia: Nel mare di un’isola giapponese i pescatori trovano granchi che hanno incise sulla corazza le smorfie dei samurai. Le loro maschere da combattimento. Questo fatto va oltre la leggenda di un esercito inabissatosi in quelle acque secoli fa. Di fatto la superstizione dei pescatori rigetta in acqua i granchi nella cui corazza si possono, anche vagamente, riconoscere i tratti guerrieri e tengono per sé solo crostacei anonimi. Il tempo ha moltiplicato, variato e rinforzato.
Mi indica ancora il lavoro. Do un’ultima occhiata alla goccia che cade. A pozza decisa, sul pavimento. Va avanti. Mi attente all’uscita. Esco. Spegne le luci dell’Accademia.