Dal tetto dello scantinato pendeva una sola lampadina che impolverava di giallino quel tavolo che non esiste più. Nel semibuio mangiavamo le noci schiacciandole fra due sassi di mare levigatissimi. I lampioni del marciapiede là fuori proiettavano ombre mobili sul vetro smerigliato della finestra altissima posta al livello del soffitto: le gambe frettolose dei passanti. Lei arrivò all’improvviso. Si tolse il cappotto bagnato di pioggia e venne a sedersi con noi. Il rame dei suoi capelli formava una matassa di nuova luce. Il crepitare delle noci si frammentava in suoni secchi e ricordava le esplosioni di certe microgalassie conservate nei nostri cassetti. C’è sempre pioggia quando sentiamo la mancanza di qualcuno. Questo credemmo di sentirle dire, ma parlava a voce bassa. E aggiunse: io vengo dal futuro. Ma anche queste ultime parole non furono chiare, perché parlava sempre più piano, in decrescenza e a viso basso, quasi senza muovere quelle sue meravigliose labbra marcate di rossetto viola e nessuno riusciva a sentire bene. Poi si slacciò dal braccio la cinghietta dell’orologio e con furia gettò sul tavolo l’ordigno come fosse un insettone schifoso. Mi serra il polso, disse. Ma stavolta alzò la voce scandendo bene ogni sillaba e nessuno ebbe dubbi sul senso di quella frase e di quel gesto. Urlò. Le guardavamo il palato e le parti più interne della bocca, poltiglia di noci impigliata fra i denti, filamenti di saliva, fin quasi alla gola palpitante di muco. Lei si faceva docilmente osservare ed esponeva impudicamente ai nostri occhi la sua bocca digrignata. Poi, indicando il vetro smerigliato dove continuavano a scorrere le ombre, disse: io ero una di quelle gambe là.
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