In un tempo che finisce di contare se stesso, qualcosa riconosce in un filamento fluttuante – simile ai mille e mille che scoprivano a media altezza i segmenti di sole dalle serrande in una casa di Roma – un carattere paragonabile al mio: l’assenza di suono, l’adagio del passo, come si fosse finalmente realizzato il sogno di una gravità mai voluta rivelare intorno per non disturbare. Ricorda in effetti di me, un io nuovamente giovane. Qualcosa lo intercetta e pare salutarlo, e se è vero che quel filamento è la mia paragonabile personalità, cortesemente ricambio.
Il cervello – nel gioco universale delle analogie in cui oramai sono preso – sembra sia quello, e batte appena seimila anni luce più in là. Lo riconosci dal polso, dal relativo diametro che, no, non importa dedurlo da quella che un tempo avresti detto misurazione esatta: la dimensione qui percepita è esattamente equivalente a quella reale. E il cervello batte, hai presente una piccola stella o un microscopico led?
Il volerti bene una vita dovrebbe essere invece quel traslare infinito l’asse dal nero al blu di appena pochi chilometri dietro; non si individua bene se in una costellazione, ma non importa, ché il volerti bene una vita figurati se può dar attenzione a una stella.
Così in quest’ennesima foto dell’universale catasto devo essere apparso io, in quella curiosa e modernissima forma di organismo diffuso, le mani in silenzio, la reception nel cuore.