L’uomo dalle fauci di rana saltava una sillaba ogni cinque. Non era balbuziente, non sgrammaticato: era anesasillabico. Era in grado di reggere un discorso per ore, sempre saltando la sesta sillaba, con la precisione di un metronomo alternato.
Scriveva poesie in endecasillabi esatti, tronchi. E scolpiva parole sulla parete accanto al letto prima di addormentarsi. Quando rileggeva i suoi versi, però, non gli tornavano i conti. Ricalcolava. Aggiungeva, sottraeva. S’innervosiva. S’innervosiva a tal punto che la parete era ridotta a un graffiato d’intonaco simile a quello delle celle in cui i detenuti scomputano i giorni residui della propria vita. Effettivamente era quella la pena che doveva scontare per aver troppo ecceduto nella pronuncia delle parole, dacché era bambino.