Che Tripaldi sia uomo degno di stima è un fatto assodato, al di qua come al di là della posizione che ricopre nell’Ateneo.
Il suo attuale rovello riguarda il nome da assegnare alla specie. Sostiene sia vissuta tra 10208 e 10161 anni fa, consumandosi per definizione nel computo di tre generazioni. La sua storia è interamente contenuta tra i boschi cedui a sud-est della nostra città: non c’è prova, a detta del professore, che i quattro esemplari abbiano mai oltrepassato il fiume.
L’istinto, ha spiegato Tripaldi nella conferenza di ieri pomeriggio, tenutasi in Aula Magna alla presenza di un corpo docenti quasi al completo, impediva ai figli di sopravvivere ai genitori. In altre parole, impediva ai genitori di non uccidere i figli.
L’unico maschio nato dalla prima coppia fu sgozzato a mezzo artigli all’età di trentuno anni, pochi giorni dopo aver divorato il figlio nato dall’unione con sua madre, la quale si trovò a essere madre e nonna di suo nipote. La femmina morì, ormai sterile e per così dire vedova – il primo maschio era deceduto due anni prima – all’età di quarantasette anni.
Come abbia fatto Tripaldi a ricostruire dettagliatamente l’accaduto – argomento solo accennato in Aula Magna – rimane per ora un mistero, che promette di essere svelato nel mese di aprile – Tripaldi si è imposto questa scadenza –, quando saranno contestualmente annunciati il nome della specie e quello del corso di laurea a essa dedicato, attivo già dal prossimo settembre.