Divembre. 2.4.
Dimenticata da chissà chi, dimentica del Tempo, del proprietario, di se stessa, una sveglietta quadrangolare di uno sguaiato azzurro genziana giace riversa bocconi sulle ruvidezze vaiate della moquette. Dal dorso sventrato penzola ajjaccato a due corti fili – uno rosso sangue di porco, l’altro di un bianco cereo – il vuoto vano delle batterie laccato appenappena, quel tanto che basta per inquietare le narici deliziate con quell’inconfondibile odor di viscerume elettronico, da un sottile velo d’acido color del miele selvatico. Tutt’attorno, favorite da una tanto anomala quanto acquiescente pendenza, rotolano animate da vita propria innumerevoli bottiglie mignon piene di liquidi lattescenti, di polveri sgargianti, di nulla fantasmagorici che curatissime etichettine tardo-liberty incollate o sugli esili colli cignuti o sulle pance ippopotamesche identificano ora come sublimati, ora come ossidi, ora come solfati, ora come eteri, ora come terre colorate, ora come… E l’Occhio, nonostante sia da diverse vite avvezzo alle repentine mutevolezze del reale, fatica non poco non solo a rincorrerle ma, spesso, volente o nolente, inciampa e s’impantana nelle sfingesche torbidità degli sfuggenti contenitori di vetro e stravede. E’ una allucinazione oppure c’è l’ho davvero qui accanto quel pittore di grido – un’A maiuscola, un’A come si deve – sempre pronto a far sue le intuizioni altrui, che cavillando a lungo e esumando ‘n’tamisià’ inoppugnabili argomentazioni estetiche riesce a sgraffignarmi numerose, di sicuro le più belle, bottigliette?… Mi congedo dai miei soccorritori con un rispettoso inchino e un dovuto, sincero “A buon rendere”, mi metto a tracolla pneumatico e camera d’aria, salto su un robusto triciclo rossoblù e, pedalando a più non posso, irrompo, cercando a guglia persa un gommista, sulla tranquilla scena paesana: inseguo gli indifesi calcagni di alcuni incauti, scandalizzati passanti; battibaleno fra i rari arredi urbani vegetali; affronto col cuor contento i pochi impegnativi saliscendi e, ubriaco d’aria, mi lancio a folle velocità in fondo ad ogni vertiginosa discesa… Ma quando, un centinaio di metri più tardi, m’imbatto nella prima, vera salita, inevitabilmente, comincio ad arrancare. Ormai a corto di fiato, scendo dal triciclo, lo afferro per una delle ergonomiche impugnature in durodorosa plastica alabastrina del manubrio a corna di bue e, ostentando un sorriso inequivocabilmente innaturale, me lo trascino appresso per un bel tratto di strada finché, con ispirata, angelica diabolicità infantile, detto fatto, non me ne libero scaraventandolo insieme al pneumatico e alla camera d’aria giù per la china. Man mano che procedo, i terreni coltivati per lo più a granaglie e inframmezzati a brulle timpe si fanno meno rari. Da ciò intuisco che mi sto avvicinando ad un insediamento di bipedi. Ma dai pochi villani che incrocio – tutti a cavallo di vecchie mule sdentate stracariche e col capo coperto da grandissimi cappellacci di paglia sforacchiata – non riesco ad ottenere informazioni a riguardo. Diretti chissà in quali remote contrade, vanno di fretta e se mi degnano del loro ascolto, per quanto mi sforzi a parole e a gesti, non appena chiedo loro quanto disti il paese, rispondono con incomprensibili, scorreggianti suoni inarticolati. Colmo dei colmi, quando alla fine dell’estenuante scarpinata, giungo nella piazza principale del paesino annidato tra le boscose pendici della Montagna, non trovo anima viva. A darmi un caloroso benvenuto ci pensano un branco di rabbiosi randagi! A questo punto …