“E già gli va bene. Che poi me li ricordo quei video dove si mostravano tutti come dei supervanitosi e superkazzuti superpapponi neri, sbracati e arroganti, beoti e iattanti, circondati da decine e decine di zoccole seminude a cui fare gestacci e mimare con il bacino il movimento del coito. Il luogo prediletto dei rapper yankee mi pareva il bordello”.
“In Italia, però, c’è un’area rap con una coscienza diversa, dove la militanza rap ha un senso di rivolta politica”.
“Guarda, a parte qualcuno più sincero e ostinato, tipo Assalti Frontali, mi paiono tutti finti, gente che si mette in posa, che recita la parte del duro perché e finché gli conviene, ma è tutta fuffa, aria fritta. Almeno in America era tutto più autentico, parecchi dei rapper black venivano dalle gang criminali, gente con anni di galera e omicidi alle spalle, gente che veniva dai ghetti delle ‘inner cities’ dove la vita è davvero dura e ogni giorno a rischio. E poi c’era il fatto dell’orgoglio nero e dell’autodifesa contro il permanente razzismo che ogni anno ammazza centinaia di giovani neri e ne mette a migliaia in carcere. Lì mezzo secolo dopo Malcom X e Martin Luther King e mettici pure Muhammad Alì, anche se il Ku Klux Klan non si manifesta più come un tempo (ma c’è ancora), la guerra bianchi contro neri è più viva e attuale che mai. Ma qui che c’è? Dovrebbero essere i figli degli immigrati, le vere tribù stradarole che pistano a sputare il loro odio rappando”.