DIVEMBRE. 3.3.
L’atterraggio sulla terrazza della costruzione non è certo meno turbolento del decollo. Così, quando abbandono la poltrona, richiamata subito giù con un tempismo ineccepibile, ho le traveggole. Grondongrondoni, incespicando sui licheni gommosi che ben attecchiscono sulle piastrelle azzurrine della copertura stelleggiandole di verd’avano arraggiati, raggiungo il basso muretto di protezione. Nell’immensa corte del gigantesco falansterio perfino le mosche hanno smesso di volare: ritti sulle strane macchine, tutti quanti i becchineschi ceffi mi puntano contro i loro muti indici accusatori. Per sfuggire ai loro occhi vespigni, corro a gambe levate verso una porticina metallica augurandomi che non sia sbarrata… Dall’altra parte, scavato nella nuda roccia, il cunicolo è angusto e, per giunta, contrariamente a quanto m’aspettavo, sale! Rare lampadine di scarso wattaggio penzolano dalle pareti umidicce sputacchiando qua e là timide pozze di luce rosatiepolo. Nonostante le gambe affondino fino ai polpacci nelle tiepide fanghiglie, avanzo spedito. E più tardi sebbene mezzo intontito dalle asfissianti esalazioni che, ad ondate successive, forti correnti d’aria provenienti da chissà dove, mi fanno mulinare attorno, con estrema facilità riesco a scardinare una porticina di legno… I due battenti si sono schiantati con un fragore sordo sui primi gradini di una scaletta che sembra voglia gareggiare con vette immaginarie… Mai sensazione visiva si è rivelata così tanto presto un abbaglio! Appena trequattro gradini dopo infatti, (la scaletta) naufraga in un pianerottolo che fa da anticamera ad una stanzetta quadrata, poco più che un ripostiglio pieno zeppo di armi di ogni tipo ammonticchiate alla ’comudédé’: là fucili a canne mozze, winchester, mitragliatrici; qua pugnali, sciabole, scimitarre, fioretti, spade, baionette; in quell’altro angolo bombe, bombe e ancora bombe e, sparpagliati sul pavimento, centinaia di sacchi di tela grezza… Nello stesso istante in cui li ho scorti, forte, afona, afgana, mi è balenata l’idea: ho arraffato alla svelta quanti più sacchi ho potuto e con una vanga sono ritornato nel cunicolo, li ho riempiti di fanghiglia e, uno alla volta, gettandomeli sulle spalle, li ho trasportati, sudando sette pelli e sette camicie, sul pianerottolo dove ho affannosamente eretto una barricata. Ho appena avuto il tempo di sparare qualche raffica di mitra contro le lampadine più vicine e, fagocitato da un buio spesso, d’asserragliarmi dietro ai sacchi, quando, silenziose come strigiformi, nere come solo può esserlo un’Ombra in una notte senza luna, tante, – quante? – dieci? venti? o forse più di cento dubbie figure precedute da un afrore indescrivibile si sono materializzate nel cunicolo. Sfruttando al meglio ogni anfratto, qualunque sporgenza, avanzano strisciando radenti alle pareti e rispondono con canaglieschi fuochi incrociati alle mie pistolettate da esasperato… Quando l’ultima eco dell’ultima detonazione s’è malinconicamente spenta, ho teso le orecchie assordate dagli spari verso il cunicolo… nessun lamento, nessun rantolo, nessuna imprecazione, niente è riuscito a scalfire il laconico tedio del Poi…