abbiamo iniziato subito a farle fare una serie di esercizi a scopo magico all’interno di un rito, utilizzando le corde per farle capire gli sviluppi d , della sua fisionomia, della sua forma, dei suoi movimenti, rispetto al genere e al tema, e che la claustrofobia dev’essere buttata fuori dalle correnti, dalle tendenze, dalle cose che si scrivono, dai canoni, dagli autori considerati importanti, dagli autori sulla scena, dai maestri a loro volta canonizzati
per metterle pressione abbiamo utilizzato la ruota, cui si accede attraverso l’uso delle mani. all’inizio non riusciva a fermarsi, aveva una paura pazza e non riusciva a tenere la foglia di fico sulla faccia, a trovare la soluzione. continuava a spostarla col naso finché non ha iniziato a passare le dita nelle fessure della trilobatura. solo così riusciva a passare, lentamente. una volta attraversato le chiedevo di fermarsi (non c’è bisogno di megafono. non c’è bisogno. parlando anche a volume basso si sente fino all’ultima fila), ma lei ogni volta correva fuori
alla fine si è abituata a essere toccata sui fianchi mentre passa per una strettoia, nonostante
quel brulicare, quel formicolare di differenze
poi siamo passati ai barili con un telo sopra. così ha percepito il problema delle misure: gli occhi devono coincidere con gli occhi, la bocca con la bocca, il naso deve consentire al naso di respirare. non riusciva a stare ferma né ad abbassare la testa, ma noi abbiamo insistito fino al punto in cui ha capito che il rituale è uno strumento di lavoro, la ricerca un indovinello, ed è riuscita a spassionare l’io trasformandolo in un osservatore di processi teoretici
in realtà dobbiamo ancora suggerirle le battute quando non sa che dire