DARE A CESARE, da sempre tuo dispaccio e transito in albugini espiative.
Il tuo sguardo mezzo girato e a getto che mezza alzata la tua spalla rintana.
Posa di mento l’invito, lì mezzo accennato dentro un cappotto di vaporeo rossore.
Giada è ogni pietra o spazio di pelle, museruola nella pioggia e di vaniglia è ogni parola.
Foglie, di noi, di occhi grigi dilatati negli occhi,
di suoni migratori, di talloni che ticchettano
fluttuanti sulle promesse infrante, al tuo passaggio
schizzano
a pelo di mercurio, la buccia,
volano scheggie di pozzanghere. Zitta la città rapita
dallo strazio di tarde anime nel novembre inoltrato:
inchinarmi o meno a te sarà
del tutto ininfluente nel quadro giuridico
di questa negoziazione mezzadrile.
I behaved badly, I am sorry. Try to forget about it if you can.
I need to talk with you and take back some of the damage but I understand you may not want
to. Please don’t think too harshly of me, D.
QUEL CHE È DI CESARE. Non lasciasti qui nulla di risolto, mi
rintrona intorno un’argenteria di nessuna particolare presenza stipata
in pericolanti messe su un comodino di nessuna particolare presa,
catene consunte come sfianche sonnolenze di avvizzite braci. Baci?
Una sfioritura nevrotica dilaniata, un urlo, secche traccie di bava
che da un’interrogativa bocca scomposta scendono, un urlo
invade la notte
ancora come a sciupare
ed in concorso ad essa a conversare.