per A. e C. che praticano la sparizione, quindi la vita
Quella volta, duecentocinquanta milioni di anni fa, era già il futuro nei passi rapidi, distesi, di certe correnti d’acqua, negli scompartimenti arrivati solo a sera, illuminati fradici dalla bellezza disarmata di non dover rappresentare nulla, neppure una nazione. Quella volta, duecentocinquanta milioni di anni fa, la pioggia: cento camion di pioggia sulla porta dell’oppressione. Cento camion di pioggia sulla seduta, astratta, delle creste di terra offerte ai movimenti del mare. Cento camion di pioggia per un’effige di guerra a venire. Come si muovono i tori? Seguono una linea oppure un punto in disordine nello spazio-tempo? La radice è completa nelle sue forme o anela altri modelli d’abisso, altre forme costitutive d’esistenza? I vasti oceani, le cime naufragate degli altipiani estinti, epicentri dispersi alla deriva: i terremoti si verificano quando le placche si sollevano, s’incontrano, si separano. Le forme si confondono se fluide. In merito alle terre estreme, allora, non siamo mai venuti a patti se non con una giornata al mare, o forse solo una linea in una fotografia, due disegni di foglie e palme e oggetti strani, uno spaghetto ché fuori piove e non sappiamo più come sparire.