Un intero film finisce per essere descritto dal vento. Le dinamiche, uniche, della sopravvivenza abitano la forma e la continuità dello spazio al di fuori dei tracciati privilegiati di chi gode dell’atto denominante. Le nostre foglie saranno radici al vento. Tu mi racconterai la tua vita da un posto lontano che non saprai come chiamare. Dal novantaquattro qualcuno ripete: “dio non è bulgaro ma ha il codino”. Diranno: era scomparso da un po’, ha lavorato fino alla fine. La camera inquadra un serpente che abbraccia e distrugge una torre. Dice: le hanno ucciso il compagno proprio mentre lui rubava l’olio del faro e lei usciva dal mare. Un film descritto dal vento, un coltello contro la tempesta, un calco di animale morto: non si può vincere contro il ghiaccio nel bicchiere. L’oggetto, allora, va consegnato liscio. Un film descritto dal vento, un coltello contro la tempesta, un calco di animale morto: l’oggetto cambia lo scenario, la musica ricomincia, qualcosa urla, un boato, forse la torre che si spezza e lei che torna al mare. Quanto occorre perché certi riti di passaggio diventino una costruzione della quotidianità? Sembra che agli imperativi manchino le escursioni mai avute, la scoperta di certi passaggi lynchiani senza fine. L’uomo di brambausen, nell’hangar di un bar, nella pancia di un centro culturale in cui essere estranei, ricorda gli assetti della neve a Dusseldorf, con parole che sarebbero potute uscire dalla bocca di chiunque, ma uscivano dalla sua. Non era tirannia, era fragore.
Categorie estetiche: VIII
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