Manul aveva studiato il genere e il numero delle nevi, dei deserti e delle rocce e delle Asie differenti nelle epoche lontane e distratte e accese, forse, soltanto dal fascino delle steppe, dalle origini sospette di un carattere sfuggente che allo stesso tempo non era più un carattere, ma una spiga, una forma eccezionale, costruita in termini di martello, di distruzione, di pioggia sui vetri: era notte, non era già più notte, era sempre un finale, sospeso, distratto, comunque non scritto, inadatto, nullo. Manul, o Urmuz, che fosse il Tibet o la Mongolia, Badisco o la Mezzanotte, aveva un quaderno e un martello pneumatico -> un principio di vita o di potenza divina -> una gomma arabica per il vino e la morbidezza, per una storia stupefacente delle scie chimiche, signore! alla domenica i blues erano senza passaporto, niente risaie e pietre e pietre e scale. Manul, o Urmuz, frugava la propria maldestrezza rinnovando l’abilità di salto e corsa: un oracolo, una balaùstra o un fiore di melograno: uno scatto. la botte come abitazione, ripeteva, introduceva il disincanto, lo scontro radicale fra la perdita della spinta utopica e l’esistenza che insiste. Molloy ha pochi fogli, una penna e ogni tanto riceve dei soldi. Un rapporto complesso quanto minimale con le tracce di una scrittura passata. Manul, o Urmuz, considera ogni salto una festa, si prodiga nello studio dei generi delle nevi e dei deserti e delle rocce e delle Asie di epoche diverse, lontane e disperate e accese; non una penna ma una spiga, un foglio, una forma eccezionale di palude, di rocce e pietre e pietre e pietre: una distruzione -> principio di vita o di potenza divina senza credo alcuno -> una forma di ateismo, uno scatto o un fiore di melograno: una storia stupefacente delle scie chimiche disegnava fattorie in cielo per sogni elettrici, dal Tibet alla Mongolia, da Badisco a Mezzanotte era pioggia, già non era più pioggia.
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