Teodoro Brussels (1860 – 1941) fu il ramo presto potato che avrebbe potuto iniziare una tradizione sapienziale a sé stante. Non lo fece. Se nell’Europa del suo tempo il feroce irrazionalismo dei Nietzche e dei Kirkegaard si scontrava idealmente con le preoccupazioni logiche ed epistemologiche degli empiristi d’oltremanica, Brussels volle fondare una scienza teoretica in grado di superare l’abisso tra le due correnti dominanti. Nella sua riflessione la strada da battere era quella della via di mezzo: la filosofia avrebbe dovuto attaccarsi come un tenace mollusco alla durezza empirica della realtà fenomenica, per risalire da lì fino agli alti cieli della metafisica e dell’ontologia. Il metodo è chiaro benché piuttosto complesso da praticarsi: messo di fronte alla percezione del fenomeno d’interesse, il filosofo dovrà indagarlo fin nel più minuscolo ed insignificante dettaglio ben sapendo che ciò non gli consentirà di rapportarsi con la cosa in sé, cioè il noumeno kantiano o l’energoumeno di Nonpuò; enucleata ogni singola sfumatura del fenomeno, si giungerà quindi ad aver descritto nel modo più esauriente possibile l’architettura interna del proprio sistema percepente per come esso interagisce con la realtà esterna; si procederà dunque a dedurne, ma come non ci è dato saperlo, le leggi che regolano le percezioni e da lì quelle che regolano il modo in cui la mente si appropria ed organizza tali percezioni. Si giunge così a definire in modo chiaro e distinto il funzionamento della mente nel suo essere intenzionale, cioè sempre rivolta a qualche cosa. L’impianto programmatico può ricordare quello di Edmund Husserl, ma l’esecuzione è talmente certosina da far impallidire qualsiasi filosofo della sua epoca e anche di quelle successive. Conscio dell’importanza imprescindibile di fondare un’ontologia della mente in grado di superare empirismi, razionalismi e volontarismi di sorta, Brussels fu talmente meticoloso nella sua opera da finir per lederne la realizzazione. Il suo unico scritto, centosettantaseimila pagine pubblicate postume in caratteri microscopici, rimase incompiuto e non rappresenta che una remota introduzione al suo sistema. In esso il filosofo parte dalla propria percezione di una penna sul suo piano di lavoro. Viene esplorata fin nelle più inutili minuzie la storia dell’oggetto e di come sia finito lì, la composizione del tavolo, la trama molecolare che li descrive, le leggi fisiche che ne permettono l’esistenza, le emozioni che tutto ciò gli suscita, l’odore dell’inchiostro, la struttura delle microparticelle che lo definiscono e i moti quantistici che le interessano. L’indagine fenomenologica è talmente particolareggiata da diluirsi in un immenso elenco di dettagli che Brussels non riuscì mai a considerare esauriente, meno che mai abbastanza da prenderlo come punto di partenza per indagini ulteriori. Se teniamo conto del fatto che, stando ai diari personali, l’analisi avrebbe dovuto estendersi fino al pavimento e alla sedia su cui era seduto prima di procedere oltre, risulta impossibile non rimanere colpiti dall’ardore della sua curiosità e dall’imponenza del suo progetto intellettuale. È invece possibile, con le dovute cautele, non rimanere colpiti dal volume che raccoglie la sua opera, come capitò ad un dottorando dell’università di Halle che tentò di rimuoverlo dallo scaffale ad esso adibito e ne finì schiacciato.
dal Manuale di filosofia fantastica (Link, 2022)