da I GIORNI QUANTI (55)

Salga. Non deve avere paura dei quarantenni coi capelli bianchi. Sente? Non c’è più amore che rimbomba in questa casa. Solo rinnovo. Ognuno dei suoi abitanti si cura, con premura e senza darne comunicazione agli altri, di cambiare la carta alle pareti. Lì troverà mia moglie e mia figlia che pensano in gabinetto. Qui è dove siamo stati ieri notte con gli amici, le briciole di salatini sono indiane. E’ la città, non è più la campagna. Ogni angolo è nominabile. Lo spigolo di un tavolo di marmo è segnato da una croce. Odorandolo potrebbe ritornare l’immagine di un incidente sessuale di sette anni fa. La città è il ritorno. Non è il posto dove si può morire, ma quello dove tornare dopo morto. Il posto che ti magnetizza, che ti tiene scioccamente attaccato alla vita. Vai in campagna e perdi tutti questi legami. Raramente, perciò, la città ti lascia andare. Mutande bianche. Le ascolto. Ascolto l’alone giallo che neanche la candeggina ci può. Le stelle le coprono le luci. Non c’è più amore. Mi sto confessando ma il prete, per fortuna, non c’è. Mia figlia assorta. Giù dalle scale anche mia figlia. Giù per non ascoltare. Giù perché non voglio sapere, avere notizie, sentire l’acqua della gebbia che continua a scorrere dal cannolo, in campagna. Giù per non andare nemmeno in campagna, semplicemente giù, per mettere a posto la macchina, per posteggiarla meglio, nel suo posto preferito. Lo so che non basta per smettere di ascoltare. Non sarà altro che un massaggio. Però, le chiedo, perché è voluta salire da noi. A verificare cosa? Se sono veramente solo? Come vede è impossibile. Non è, mi creda, una questione temporale.

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