da I GIORNI QUANTI (60)

L’ipotesi di stabilirmi in campagna è subito scartata. Il ventilatore mi è nemico. Cioè lo sento come il mio detrattore personale. Questo non mi fa più paura, non mi rattrista. Lo accendo e lo spengo con una familiarità sino a ieri impensabile. Solo che tutto il tempo che lo tengo acceso non posso fare a meno di pensarlo acceso, nemico, e di scansarlo come un lottatore giapponese. E quando lo spengo non posso fare a meno di pensare al momento in cui lo riaccenderò. Che lo potrò accendere, voglio dire, per stare meglio (non più fresco, naturalmente, perché quel fresco  mi uccide). Anche se, quindi, ‘per stare meglio’ non lo dovrei proprio dire. E, poi, parla. Non capita spesso ma, qualche volta lo dimentico, riesco a uscire da questo circolo infernale che fa tanto pandant con le notti infuocate di questa coda d’estate. E quando lo dimentico, lui parla. Non riferisco i messaggi sconnessi che mi rivolge. So solo che per interromperlo devo spegnerlo se è acceso, devo accenderlo se è spento. I giorni passano, cosa non si fa per fare passare i giorni. O è la mia testa che passa. Gli occhi hanno la loro linea d’orizzonte e il loro punto di fuoco. Lontano (ogni giorno più lontano) dalle righe delle pagine che vado scrivendo. Ogni volta devo prendere le distanze: per questo dico a qualcuno, per il momento non ho la minima intenzione di mettere gli occhiali.

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