da I GIORNI QUANTI (66)

Ricordo con quanto piacere andavo a trovare uno zio che viveva – che d’estate abitava poche stanze di una villa principesca a Bagheria. Stesso clima perfido, uguale a quello della città, uguale a quello di adesso. Sala da pranzo con tre lampadine da 40W. Insalata senza olio. Vecchio e sterile sin da quando quella sua  muta cianfrusaglia umana si era fidanzata, sposata e morta in incognito. Quelle meravigliose esalazioni di morte: la fruttiera che è un calice di vetro con frutta di giornata invece contiene frutta di cera. Solo il vetro è vero.

Ricordo l’architetto-nipote che voleva subito telefonare a un locale notturno. Era venuto da fuori. Voleva svegliare dalla morte questi miei zii di Bagheria. Ignorava che, già da tempo, i miei zii vivevano in un locale notturno e non avrebbero mai accettato la proposta. Il loro locale non è nemmeno nelle guide alternative di Bagheria. Io non so se, dicevo. Io so riconoscerli, dicevo, è vero, ma non so quanti sono. E vorrei saperlo perché potrebbero essere di più di quanto noi potremmo sopportare. Lo dicevo, per prendere tempo. Primo, dicevo: mi fanno impressione. Se ne vedo più di uno è come se il cinque diventasse una vocale. Secondo e terzo: se riesco a contarne più di uno, il secondo o terzo no, non ci riesco. Lo perdo di vista. Quando li frequentavo, ma adesso non li frequento più, dicevo all’architetto-nipote per convincerlo, avrei potuto contarli, avrei potuto sapere quanti erano, quanti morti hanno o si fossero lasciati intorno. Ma perché, poi, avrei dovuto contarli?

Che risate certe vecchie zie con la borsetta. Che tenevano stretta. Basse, gambe con le calze leggermente cadute, vestito dal giorno del suicidio di un remoto stato americano. “Il Giorno del Suicidio Universale”. Sembravano morte le borsette di queste mie zie che dovremmo tutti andare a trovare, un giorno, questo sì, perché no. E salutare e baciare imbiancandoci di cipria d’annata. Mangia, mi diceva lo zio, davanti a un piatto di cera che rispecchiava la sua faccia, in un ristorante che era il loro ristorante e anche la loro casa e anche la loro cappella mortuaria. Loro non cucinavano. C’era questa distrazione della grammatica: non cucinavano. Erano bei morti, morti particolari, per questo. E io dovevo mangiare. Il bello era che loro morti, decrepiti morti, a casa non cucinavano. Il bello era che non cucinavano, ora che ci penso, ma mangiavano, erano proprio deliziosi morti. Particolari. Al ristorante ordinavano. Il ristorante era casa loro. E nessuno veniva a portare i piatti. I piatti erano sul tavolo. Già pronti per la consumazione. Tutti di cera. Vecchi. E decine e decine di parenti morti sulle spalle, nei loro ricordi. Si parlava di questo. Cosa ordinavano? lattuga senza olio, ossa senza carne. Vecchi decrepiti e morti. Mi piacevano. Mi piacevano perché mi impressionavano. Mi piaceva fare loro le improvvisate. Che a loro non li spostava di un centimetro, di un minuto, di un femtosecondo. Si voltavano verso di me che ero arrivato e mi sorridevano. Dicevano, come mai? come mai? come mai? Mangia questo, poi dicevano, mangia quest’altro, continuavano. Io mangiavo. Facevo finta di mangiare, naturalmente, perché non c’era niente nei piatti. Loro non erano contenti, non mangiavo abbastanza. Ma non potevo dire che non riuscivo a trovare niente da mangiare. Però erano morti contenti. Erano noncontenti contenti. Il frigorifero nella sala principesca rideva. Era contento di avere finalmente un ospite. Lo aprivo solo per fargli piacere. Perché lo sentivo che aveva aspettato da troppo tempo quel momento. E perché mi sentiva vivo, in mezzo a tutti quei morti, un suo simile. Anche se poi lo richiudevo, non avendogli trovato organi interni, gli sussurravo che l’avrei riaperto prima di andare. E lui riprendeva a ridere.

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