Non sono mai riuscito a scoprire come sia esattamente composta la frittola che Don Totò vende giornalmente al Capo. Non osando mai pagare le duemila (non naturalmente per mangiarla ma per portarla a casa e analizzarla), sosto a distanza di sicurezza in attenta, e sinora inconcludente, osservazione. Da quello che ho potuto capire, la ragione per cui la frittola è rigorosamente coperta da uno spesso panno e servita ogni volta con ostentata e fulminea circospezione dipende dal fatto che la frittola, ogni volta, è una sorpresa. Negli occhi lucidi dei suoi mangiatori – sia di chi se la fa avvolgere e chiudere in un coppino per viverla come un piacere assoluto e solitario, sia di chi se la fa spargere su una pagina a colori di un gadget del Giornale di Sicilia – ho sempre percepito il ludibrio di un’attesa diversa. Né mi ha deviato da questa ipotesi l’avere colto al volo il contenuto del pugno del frittolaro. O puntando certi mariti che, a cielo aperto, porgono dal finestrino il corrispondente delle duemila alla consorte, la quale subito cala la bocca, si appozza su quell’omaggio, con una ritualità che lascia immaginare altre pratiche coniugali, di uguale remuneratività. In quegli scorci, tuttavia, quello che vedo è un prodotto, un miscuglio di prodotto, sempre diverso, come è diverso il cielo, oggi, rapidamente strisciato da nuvole gonfie di astinenza. Diverso, misterioso. Come lo sono i rimasugli di frittola che, quando Don Totò ha finito e si trasferisce in bettola, io corro ad osservare e a non trovare, forse dispersi o mimetizzati con la molteplice varietà di scorie del mercato. Oggi, con questo vento che però già minaccia di spegnersi da un momento all’altro, ho avuto idea che la frittola preparata tra la notte e l’alba da Don Totò, doveva essere particolarmente succulenta e appetitosa. Sarà perché il vento soffiava dalla parte del mare, m’è sembrata verdastra e salmastra. Il desiderio di avvicinarmi era più forte che mai. C’era un capannello di gente, mai visto così folto, ad aspettare il turno, e non era ancora mezzogiorno. Tra quella gente intravedo mio cugino. Non mi è sembrato vero, era l’occasione da tempo cercata. L’ho beccato che con molta attenzione stava mordicchiando qualcosa che sembrava un occhio, gelatinoso e quindi difficile, da spizzicare. Dalle labbra gli pendeva una specie di rosario di piccoli occhi di pesce. No, guarda – mi ha detto con la coda dell’occhio, senza staccare gli occhi dagli occhi di frittola, non ti rischiare a comprarla perché oggi Don Totò ha la testa malata e io, bestia, che ci sono caduto. La vende a centomila. E comunque io non la mangio tutta, già sto male, ora te la prendi dalla mia. Perché c’è anche questo nella frittola: la botta che ti danno certe droghe o intrugli pesanti. All’inizio, sembrerebbe che ci stia rimanendo secco, poi, se resisti, vai in paradiso. Perciò, senza nemmeno finire il suo, sfila un altro occhio dal coppino, anche più grosso del suo e me lo porge. Ha le dimensioni e la consistenza di un pomodoro di mare. Ma è trasparente e dentro, come se l’esterno fosse nient’altro che una placenta, un corpicino che si muove da serpentello, con una testa molto più sviluppata rispetto la coda. Non farlo raffreddare troppo, esorta mio cugino, qua si vede il genio di Don Totò, che l’ha fatto friggere così delicatamente che la frittola di dentro è ancora viva. Io non vorrei, ma una forza più forte della mia volontà e della mia sensibilità, mi spinge ad addentarla e mio cugino mi ferma, gridandomi che non posso cominciare dalla coda, che è la parte più gustosa perché contiene le feci, si possono vedere anche ad occhio nudo. Devi partire dalla testa, mi insegna, quella ti darà la scossa se saprai morderla nel punto giusto, se saprai fare corrispondere l’ultimo palpito di vita della frittola di Don Totò insieme al cortocircuito dei canini.
da I GIORNI QUANTI (71)
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